“La musica è una persona, un parente stretto, un amico d’infanzia, qualcuno con cui cresci, condividi la vita”, ci dice Federica Zammarchi, voce e co-fondatrice, insieme a Davide Alivernini, degli Antichords. Una lunga gavetta “on the road” tra club e cantine con – alle spalle – anni di conservatorio, incontri, sperimentazioni. Fino a Walls, il primo concept album del duo “cross-electro” della nuova scena musicale italiana contemporanea. Il progetto Antichords è nato dall’incontro trai due artisti, due spiriti opposti che combinano le proprie esperienze ed il loro background, dal palco del Primo Maggio fino a collaborazioni con Stelvio Cipriani, Clara Moroni, Agricantus. Dalla musica classica al “Power Jazz”, dall’elettronica al rock.
WALLS (CNI, 2015) è accompagnato dal nuovo singolo “Crumbling”. Tema centrale dei testi è l’incomunicabilità, i “muri” appunto, quelli che sono fuori e dentro ognuno di noi. Gli Antichords si avvalgono, dal vivo, della collaborazione di due preziosi musicisti: Pier Paolo Ferroni alla batteria e Fabio Massacesi.
Abbiamo incontrato Federica Zammarchi e Davide Alivernini che ci raccontano, in questa intervista, la loro musica e i loro progetti presenti e futuri.

Cosa è per voi la musica?
F. La musica è una persona, un parente stretto, un amico d’infanzia, qualcuno con cui cresci, condividi la vita, ti arrabbi a volte, la adori, altre, la allontani e poi ci fai pace, ti fa stare male e bene, ti fa conoscere il suo mondo, i suoi “amici” e viceversa…a volte non la capisci, altre volte è l’unico contatto che hai con il mondo. E’ un confronto diretto, un filtro tramite il quale vedi le cose.
D. Ho iniziato a fare musica all’età di 5 anni, e oggi ho ancora la fortuna ed il piacere di esserne totalmente circondato. Crescendo e lavorando in maniera “professionale” siamo costretti talvolta a mettere da parte la componente emotiva ed avere un approccio più razionale e pragmatico. Ma nella musica è fondamentale mantenere anche quell’aspetto più viscerale. Da musicista cerco ti rispettare sempre questo equilibrio.

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Come e quando è nato il progetto Antichords?

F. Beh, prendi una musicista che ha scritto dei brani, emozionali e personali, con un passato musicale complesso e contrastato, e presentale un bassista che poi si scopre essere un polistrumentista e produttore con grandissimo talento e un mare di idee, chiudili in uno studio per due anni e miscela bene il tutto…
D. Credo fortemente che nel percorso di ogni musicista ci siano degli “appuntamenti col destino”, tutto sta a farsi trovare pronti e disponibili. Quando ci siamo incontrati con Federica, suonando assieme quasi 3 anni fa, abbiamo avuto da subito la sensazione che l’opportunità di collaborare ad un disco fosse a portata di mano, naturale e spontanea. Il nome “Antichords” è arrivato a disco ultimato, quando ormai il nostro sound era ben definito, ed è forse proprio per questo che per noi rispecchia esattamente lo spirito della nostra musica.

3. Wall è il vostro primo album, se vi chiedessi 3 aggettivi per descriverlo?
F. Emozionante, Sofisticato, Viscerale
D. Anticonvenzionale, Concettuale, Romantico.

Avete attraversato l’Italia, avete suonato sul palco del primo maggio, nei teatri come nelle cantine. Che esperienza è stata? Le reazioni del pubblico? Cosa si aspetta dai vostri live chi viene ad ascoltarvi?
F. Il primo Maggio è un’esperienza straordinaria, un palco che ha un impatto incomparabile con qualsiasi altro, ma è solo uno “step” nel mio percorso. Anni di piccoli locali e grandi festival, di progetti diversi e diversi generi musicali, di collaborazioni con musicisti straordinari ma meno note perché in location meno conosciute. E’ sempre lo scambio la cosa più importante, col pubblico e con i musicisti, dovunque. Lì le reazioni sono sincere, non mediate dal mezzo televisivo e dal prestigio dell’evento. O gli piaci o non gli piaci. Può succedere qualsiasi cosa, puoi essere in serata e non arrivare ad un pubblico difficile, o sentire gli applausi e la gente in delirio…
Dal nostro live sicuramente chi ascolta non rimane deluso. C’è tutto: romanticismo, tristezza, malinconia, emozioni forti, rabbia, amore, e una gran “botta”.
D. Il bello di essere polistrumentista è che ti trovi a suonare nelle situazioni più diverse.
Negli anni mi è capitato di suonare Brahms in un convento a Linz, scrivere le musiche e suonarle in tournée per una compagnia teatrale tedesca che rappresentava Ibsen in norvegese, sudare sui palchi dei festival e locali rock. Ricordo che una volta girando su e giù per l’Italia con un’orchestra che suonava nelle piazze a fine concerto mi sono addormentato sul palco per quanto ero esausto. Ma non sono mai stato scontento o insoddisfatto. I concerti rappresentano per ogni musicista il vero confronto con la realtà, non c’è teoria o giustificazione che regga. E’ l’ unico momento in cui capisci veramente se tutto il lavoro che hai fatto in studio e a casa funziona o no, e finora devo dire che la risposta del pubblico (e dei musicisti con cui ho il piacere e la fortuna di lavorare) è stata ottima!

Avete collaborato con numerosi artisti, dagli Agricantus a Clara Moroni, spaziando tra vari generi, dal folk all’elettronica. La musica è contaminazione?
F. La musica nasce come contaminazione, tra suono e realtà, quindi sì, a prescindere. Parlando di generi musicali: può essere ANCHE contaminazione, non necessariamente. C’è chi ha costruito una carriera sul purismo e sul perfezionamento di un genere. Personalmente credo che le cose più interessanti siano sempre nate dall’unione di elementi diversi, che hanno portato qualcosa di nuovo.
Nel nostro caso ce ne sono tante, classica, jazz, elettronica, rock, pop…Non si scrive pensando a contaminare per fare qualcosa di originale. Si scrive guidati da tutto quello che si è studiato, ascoltato, suonato…le esperienze vissute…ed essendo musicisti piuttosto poliedrici il mix è inevitabile, quello che esce è la somma di tutto.
D. Ci piace molto collaborare con altri artisti, condividere le esperienze ed i percorsi personali rappresenta uno stimolo ad espandere i propri orizzonti.
E’ importante essere sempre aperti e disponibili alle contaminazioni, pur mantenendo sempre un proprio punto di vista, come un dare ed avere. L’ideale è conservare l’entusiasmo di chi vuole imparare ed allo stesso tempo la “solidità” di chi può mettere a disposizione la propria “storia” musicale.

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Il tema del vostro album “Walls” è l’ incomunicabilità, i “muri” appunto. Quali sono i muri nell’Italia di oggi?
F. L’Italia è un paese pieno di muri, dalle barriere architettoniche allo scontro di tante culture. Il tema portante dei brani però non è un concetto sociale né tanto meno politico. E’ riferito all’incomunicabilità tra gli esseri umani, personale, semplicemente umana. Cose non dette, incapacità di prendere decisioni, mancanza di chiarezza, confusione, fughe, tutto quello che sperimentiamo in un’era in cui tutti sanno tutto di tutti, ma nessuno sa niente di nessuno. Siamo immagine e non realtà, ci costruiamo come vogliamo, ma non ci conosciamo…
D. I muri tra le persone hanno un po’ sostituito le maschere, se prima si tendeva a mistificare la comunicazione, oggi si tende proprio ad omettere. Abbiamo l’illusione di essere sempre connessi, sempre aggiornati, comunicanti, ma in realtà molto spesso non sappiamo più tendere la mano quando si tratta di avvicinarsi al prossimo, non siamo più disposti a “provare”, a concedere una possibilità. E soprattutto non ci rendiamo più conto di quante cose non conosciamo e che ci “perdiamo”. Abbiamo scelto di utilizzare delle opere street-art di Herbert Baglione all’interno del booklet di Walls, perche l’idea che l’arte possa diffondersi ed essere rappresentata anche sui muri (che idealmente sono quelli dell’incomunicabilità) rappresenta una speranza per tutti noi che viviamo in un’epoca piuttosto “spenta” dal punto di vista creativo.

Cosa significa fare musica oggi?
F. A questo riguardo sarebbe facile essere populisti e scrivere una bella frase ad effetto, tipo “inseguire un sogno nonostante le avversità” o cose del genere. La verità è che vai a dormire tardissimo, preso da quello che devi scrivere, dall’arrangiamento che devi fare, da quella cosa che vuoi studiare, e non hai mai abbastanza tempo per farlo. Lavori a tanti progetti diversi, insegni, ti dai da fare in tutti i modi possibili e la maggior parte delle volte gratis. Non puoi mai ammalarti, non esistono ferie, parenti e conoscenti non capiscono cosa stai facendo. La musica è un lavoro FATICOSO, ti fa venire continuamente voglia di mollare tutto ma…alla fine dei conti, non ci rinunceresti mai.
Dopo il Primo Maggio, citando le parole di un amico per una situazione analoga, almeno non mi chiedono più “che lavoro fai”.
D. Il mercato discografico non esiste già più da molti anni, questo paradossalmente lascia spazio a molte forme di espressione che una volta rimanevano nascoste, ma allo stesso tempo non permette una crescita. In passato ci sono state band che sono maturate dopo il secondo, terzo disco. La discografia, amata e/o odiata da molti, ha permesso in certi momenti storici di far emergere musicisti che altrimenti sarebbero rimasti sconosciuti.
Oggi non ci sono più regole, quel che noto è che sicuramente le innovazioni continuano arrivare dall’estero, come se fuori dall’Italia ci fosse una maggiore propensione ad andare avanti e sperare in qualcosa di nuovo.

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Pensate che il nostro Paese, dalle Istituzioni agli operatori del settore, tratti la musica come merita?
F. Qui il discorso si ricollega alla risposta precedente, perché tutto quello che ho scritto è vero soltanto perché siamo in Italia. Il musicista è depositario di cultura ed è simbolo del momento storico, anche nel terzo mondo viene stimato e rispettato. Nel nostro paese palesemente non è così, non è nemmeno un’occupazione riconosciuta (sulla carta d’identità alla voce PROFESSIONE mi hanno scritto “ALTRO”). Ovviamente la cosa si estende a tutte le arti, dato che nella patria di Michelangelo l’insegnamento della storia dell’arte è stato abolito dalle scuole. E’ anche vero, riguardo al “come merita”, che la maggior parte delle produzioni attuali, quelle che sentiamo per radio, raramente sono prodotti di qualità. Non perché siano commerciali, ma proprio perché non c’è cura. Se si ascolta un brano di grande successo in America, che si parli di Katy Perry o di Lady Gaga, su cui vengono investiti milioni, dando lavoro a professionisti di altissimo livello, la differenza si sente. Da noi il pubblico è abituato ad “accontentarsi”, raramente se ne accorge. Quindi stimolare l’ascolto e la curiosità della gente non ha più molto senso né per le istituzioni né per gli addetti al settore. E’ un po’ un cane che si morde la coda. E dire che negli anni ’70 gli Area riempivano gli stadi ed andavano in RAI. Ci vorrebbe una classe dirigente che si occupi della cultura, che costringa gli italiani a pensare con la propria testa invece di omologarli…magari anche che incrementi i mezzi pubblici ed aggiusti le strade disastrate, ma temo di aver sfociato nella fantascienza!
D. La musica è a disposizione di tutti ormai, chiunque voglia avvicinarsi a questo mondo può farlo utilizzando infinite possibilità, per fortuna da un punto di vista globale la musica non rispetta i “confini” del nostro Paese, sono felice di vedere che attorno a me ci sono amici musicisti che nonostante le difficoltà e le avversità riescono comunque a fare il proprio mestiere, a coronare una vita di sacrifici e di passione. Quel che invece tragicamente manca in Italia è il sostegno e lo sviluppo del talento, si sta creando un impoverimento tale che ormai anche la parola stessa sta iniziando a “perdere” i pezzi, trasformandosi in TALENT. Purtroppo, come in tanti altri meccanismi del nostro paese, difficilmente si riesce a trovare un responsabile, da un lato ci sono tanti insegnanti, discografici, musicisti che continuano a fare il proprio lavoro in maniera etica e corretta, dall’altro c’è un immobilismo gerontocratico e culturale che rende ogni nuovo progetto artistico più difficile, complicato e spossante.

Quali sono i vostri prossimi progetti?
F. Sicuramente portare il nostro lavoro nella dimensione live, cosa che abbiamo cominciato a fare da poco più di un mese (essendo il disco uscito da poco) e che alla fine è sempre lo scopo di un musicista: far ascoltare il proprio lavoro ed esibirsi di fronte ad un pubblico, il più possibile. Abbiamo realizzato “Walls” praticamente da soli, noi due, occupandoci di tutta la pre-produzione e quindi suonando tutti gli strumenti, dal vivo siamo felici di avere la collaborazione di due bravissimi musicisti, Fabio Massacesi alla chitarra e Pier Paolo Ferroni alla batteria, che hanno portato nuove idee e soluzioni e si sono appassionati alla nostra musica tanto quanto noi.
Nel frattempo ovviamente non abbiamo smesso di lavorare in studio e stiamo preparando nuovi brani, nuovi suoni e tante idee per realizzare un secondo disco. Direi che abbiamo abbastanza da fare e l’entusiasmo non ci manca!
D. C’è già qualche idea per il secondo disco, in questo momento personalmente sto cercando nuove ispirazioni e sto facendo una ricerca approfondita per immaginare nuove tecniche di registrazione, strumenti musicali auto costruiti e mondi sonori inesplorati.

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