La Turchia ha iniziato a bombardare mercoledi scorso il nord della Siria, l’area a maggioranza curda del Rojava. Le bombe hanno colpito inizialmente le città siriane di Tell Abyad e Ras al-Ayn per poi spostarsi nel resto della regione. Centinaia sono finora i morti. L’ultima autobomba è esplosa vicino alla prigione con i detenuti dell’Isis e, tra le milizie mobilitate da Erdogan nell’offensiva lanciata mercoledì, ci sarebbero anche fuoriusciti di Al Qaeda. Il Pentagono ha accusato i turchi di aver bombardato per sbaglio le forze Usa a Kobane, mentre la condanna internazionale è unanime. Il governo italiano ha annunciato che non accetterà il ricatto turco sui profughi, mentre la Germania ha deciso di bloccare l’esportazioni di armi alla Turchia, come ha già fatto l’Olanda.

L’attacco turco, iniziato mercoledì, è arrivato dopo la decisione degli Stati Uniti di ritirare i loro soldati dal nordest del paese, dove si trovano i curdi siriani, per permettere alla Turchia di invadere quel pezzo di Siria e creare una specie di “safe zone” tra il confine turco e quello siriano.

La comunità internazionale accusa l’amministrazione Trump di tradimento nei confronti del popolo curdo, finora alleato degli americani e fondamentale nella guerra contro l’Isis. I curdi infatti hanno garantito la sconfitta dell’autoproclamato stato islamico, dopo aver vinto le battaglie più importanti. I curdi siriani, però, sono anche i principali nemici del governo turco, che li considera “terroristi”.

La decisione era nell’aria da tempo. Donald Trump doveva scegliere se stare con i curdi o con Erdogan e ha scelto il governo turco.

Foto: Getty Images – Wired
La Turchia e i curdi

Il governo turco considera le principali milizie armate curde, le YPG (Unità di Protezione Popolare), un gruppo terroristico e le ritiene la continuazione del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), partito politico curdo che per decenni ha combattuto contro il governo turco per creare un proprio stato indipendente.

Per comprendere le ragioni del conflitto occorre però fare alcuni passi indietro.

Nel 2011, la Turchia combatteva sia il regime siriano di Bashar al Assad, per instaurare in Siria un regime islamista sunnita alleato di quello turco (Assad è allineato con gli sciiti), sia i curdi siriani, per tenerli lontani dal proprio confine meridionale.

La situazione si è complicata nel 2014, quando gli Stati Uniti, allora governati da Barak Obama, hanno iniziato la guerra contro l’Isis, che controllava buona parte del paese. Gli Usa non volevano impiegare proprie truppe di terra e hanno stretto un accordo con i curdi siriani, che si erano dimostrati molto abili in battaglia ed erano interessati a recuperare i territori del nord della Siria abitati in prevalenza da curdi. La Turchia continuava, intanto, i bombardamenti contro la popolazione curda e l’allenza curdo-americana costituiva un problema importante poiché Turchia e Stati Uniti erano entrambi membri della NATO.

Nell’estate 2016, mentre i curdi erano impegnati nella guerra contro l’Isis (o Daesh), la Turchia è entrata con i carri armati nel nord della Siria, per liberare e conquistare alcuni territori occupati dall’Isis. La Turchia, in quell’incursione, è stata appoggiata dall’Esercito Libero Siriano, un gruppo di ribelli sunniti in guerra contro il regime di Assad. Nel gennaio 2018, le forze turche, con l’appoggio dell’Esercito Libero Siriano, hanno attaccato la città di Afrin, da due anni controllata dai curdi siriani.

Da quel momento, i territori a ovest del fiume Eufrate sono controllati dalla Turchia e dai loro alleati, mentre quelli a est dai curdi siriani.

Una mappa aggiornata del nord della Siria. I verdi sono le forze alleate della Turchia, i gialli sono i curdi siriani, i rossi sono il regime di Assad e alleati. La Turchia vorrebbe creare una “safe zone” nei territori oggi in giallo, a est del fiume Eufrate (Liveuamap)
Una mappa aggiornata del nord della Siria. I verdi sono le forze alleate della Turchia, i gialli sono i curdi siriani, i rossi sono il regime di Assad e alleati. La Turchia vorrebbe creare una “safe zone” nei territori oggi in giallo, a est del fiume Eufrate (Liveuamap)
La decisione di Trump

La decisione di Trump è stata criticata dall’Unione Europea, da quasi tutti gli analisti internazionali, ma anche da membri dell’amministrazione del governo e da diversi politici Repubblicani, come il senatore Marco Rubio che ha definito la scelta un errore.

Ciò che preoccupa in questo momento, oltre alle sorti delle popolazioni curde, è il rischio che l’Isis sfrutti il caos che si verrebbe a creare nel nord della Siria per riorganizzarsi e rafforzarsi, in maniera più rapida ed efficiente. Nonostante da diversi mesi non esista più il Califfato, l’Isis non è ancora stato completamente sconfitto, né in Iraq né in Siria, ma è tornato a organizzarsi in piccole cellule.

A questo si aggiunge il problema degli ex miliziani dell’Isis:  sono oltre 10mila in custodia nelle prigioni curde e tra questi molti sono “foreign fighters”, i combattenti stranieri. Trump ha annunciato che la Turchia si farà carico di questi miliziani, ma non è chiaro come. Solo nel campo di Hol, inoltre, ci sono circa 70mila profughi, tra cui migliaia di familiari di miliziani dell’Isis e, nel corso del tempo, il campo è diventato un luogo piuttosto fertile per la diffusione dell’ideologia islamica.

Il tradimento di Trump è palese: l’amministrazione americana aveva promesso protezione ai curdi appena due mesi fa, in cambio dello smantellamento delle postazioni di difesa costruite dalle Sdf (Forze Democratiche Siriane) al confine con la Turchia.

In seguito all’indignazione da parte della comunità europea e dell’Onu, Trump ha fatto una parziale marcia indietro, dichiarando che il ritiro delle forze statunitensi in Siria riguarderà soltanto un centinaio di unità delle forze speciali e che non ci sarà alcun loro coinvolgimento nell’operazione militare di Erdogan. Troppo poco evidentemente, perché da mercoledì in Siria la guerra di Erdogan contro i curdi è già una realtà.