Le parole fanno male, soprattutto per un adolescente che si domanda continuamente qual è il suo ruolo nel mondo. Da una parte i ragazzi affrontano la difficile convivenza tra accettazione del sé o rinnegazione, e spesso lo fanno per essere “normali”, una parola ormai fuori da ogni contesto sociale ma soprattutto umano. Niente è normale e la diversità deve giocare il ruolo madre di educare grandi e piccoli al rispetto delle diverse singolarità. Dario Accolla, scrittore e blogger de Il Fatto Quotidiano, ha compreso la funzione che le parole hanno nella nostra società, grazie anche alla sua passione per la linguistica italiana, ma anche al suo grande interessamento ai gender studies. Per comprendere al meglio tutto questo, l’abbiamo intervistato, fresco di successo con il suo ultimo libro di ricerca intitolato “Omofobia, bullismo e linguaggio giovanile”.

Nel tuo ultimo lavoro, “Omofobia, bullismo e linguaggio giovanile”, hai analizzato il rapporto tra bullismo omofobico e linguaggio. Credi che l’attuale ruolo dei social network sia alla base di questo rapporto, che assume sempre più i tratti di una violenza 2.0?
I social network sono strumenti e non rappresentano qualcosa di assolutamente positivo o negativo in sé, ma è l’uso che ne facciamo che può fare la differenza. Il linguaggio omofobico e lo stigma contro le persone LGBT trovano spazio anche nei nuovi media perché chi li usa è intriso di rappresentazioni ostili sulla diversità. Cominciare a parlare di linguaggio, del suo uso e della sua potenzialità anche negativa è uno strumento, a parer mio, per cominciare a destrutturare il fenomeno.

Nelle scuole italiane, già da molto tempo, vengono insegnate materie come religione ed educazione civica. Come mai non viene ancora del tutto affrontato il tema della “diversità”? Credi ci sia una struttura gerarchica di ciò che può essere insegnato e cosa no?
Il sapere, per sua natura, dovrebbe essere estraneo a concetti di gerarchizzazione. Semmai esistono le inclinazioni personali che ci portano ad essere più propensi per questa o quella disciplina. Credo però che la scuola abbia il dovere di formare un individuo non solo come destinatario di conoscenze specifiche, ma anche di valori. Questo non significa che si debbano impartire contenuti politici, che vanno lasciati alla coscienza individuale, ma fornire strumenti per formare quella coscienza. Un percorso interdisciplinare di educazione alle differenze dovrebbe mirare a creare pensiero critico. Purtroppo la scuola è ancora carente in tal senso.

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L’omofobia può essere davvero insegnata? Credi che nelle scuole italiane ci siano strumenti che possono contrastarla?
L’omofobia è un dispositivo culturale preesistente e tutti/e noi ci siamo dentro, in modo inconsapevole. Così come col sessismo, il razzismo, ecc. Basti pensare a certi modi di dire quali “auguri e figli maschi” o “chi dice donna dice danno” per capire come lo stigma contro le donne sia ancora diffuso. Succede lo stesso per le persone LGBT. La differenza sta nel fatto che oggi certe idee sono considerate, almeno a livello teorico, dequalificanti: nessuno si sognerebbe di affermare di essere razzista o misogino, almeno consapevolmente. Per l’omofobia si fanno larghe eccezioni, in quanto le affermazioni contro gay, lesbiche e trans vengono spacciate per “opinioni” personali. In tale contesto la scuola ha il dovere di combattere ogni forma di discriminazione contro le categorie considerate minoritarie o fuori norma.

OmofobiasingolaIl linguaggio giovanile riproduce il linguaggio genitoriale: a tal riguardo cosa è emerso dalle indagini a campione? Molte risposte sono state chiare?
Famiglie e ragazzi/e non hanno colpa nel riprodurre lo stigma linguistico contro le persone LGBT, perché pensano che certe affermazioni rientrano in una norma argomentativa. Sta a chi insegna – ma anche ad altri attori sociali, come militanti, educatori/trici, ecc – far capire che usare ancora un certo linguaggio è un lusso che una società moderna e democratica non si può più permettere. Il campione si definisce gay-friendly, in molti casi, salvo poi riprodurre automaticamente affermazioni omofobe. Non si ha coscienza di ricalcare lo stigma anti-gay. Emerge inoltre un altro dato allarmante: le parole usate per indicare le persone LGBT richiamano o specifiche parti del corpo, o pratiche sessuali connotate negativamente o produzioni corporali di scarto (si pensi a “culattone”, “succhiacazzi” e “frocio di merda”, per fare tre soli esempi). Se le parole sono mattoni con cui costruiamo e interpretiamo la realtà che ci circonda, e usiamo questi materiali per indicare una minoranza, creiamo un universo semantico in cui chi appartiene a una certa categoria verrà visto come distante non solo dalla norma, ma dal concetto stesso di umanità. È “umano” quel soggetto ridotto a parte del corpo o a rifiuto corporeo?

Educare alla differenza è ancora possibile? Quali sono i rischi di una mancata educazione alla diversità?
Educare alle differenze non solo è possibile, è doveroso. Col mio saggio provo a stanare il “mostro” dell’omofobia dalle coscienze dei parlanti e a indicare quali sono i rischi per quei soggetti ritenuti fuori norma. Faccio sempre l’esempio di Matteo, un ragazzo di Torino suicidatosi perché ritenuto gay. La madre ha sempre negato che fosse omosessuale. Se questo fosse vero, l’omofobia nata come dispositivo per difendere gli eterosessuali mieterebbe vittime anche dentro questa categoria. Più in generale, una società che crea eletti e discriminati è poco solida. Viviamo in un’epoca di crisi e le società più coese sono quelle che accusano meglio i colpi dell’incertezza del nostro tempo. Sta a noi, quindi, capire da che parte stare.

 

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