Tra canali, cattedrali ortodosse e lussuosi palazzi, il nostro viaggio nella metropoli dell’ex Impero sovietico.

Stefano ha 36 anni. Sul volo Aeroflot per San Pietroburgo ci è finito con uno scalo a Roma da Firenze per rivedere, dopo un anno, la sua ragazza che vive in Russia mentre lui, a causa delle restrizioni legislative di Donald Trump negli Stati Uniti, ha deciso di produrre i suoi dischi in Italia. Parla della sua chitarra con gli occhi di chi ama la musica e non l’abbandonerà mai. Jeff Buckley, uno su tutti, è il mito che lo accompagna in questo viaggio d’amore per riabbracciare Irina che in 365 giorni ha visto solo su Skype. Di San Pietroburgo racconta i tanti volti di una città (la seconda per dimensioni e popolazione dopo Mosca) superorganizzata, dove l’immondizia per strada non esiste e la metro, sempre pulita, è aperta h24. I grovigli di fili dei tram sospesi in aria sulla Prospettiva Nevskij, il corso principale di San Pietroburgo, sembrano giocare con i canali (come il Griboedova) e i palazzi che diventano quasi le lussuose marionette di una scenografia imperiale nascondendo accanto ai nuovi ricchi la faccia più triste di un’unica medaglia. Quella chiamata povertà. Perché vicino a chi vende fiori nei chioschi o souvenir e matrioske nei pressi delle cattedrali ortodosse – tra cui quella dedicata a Sant’Isacco o la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato (detta anche Cattedrale della Resurrezione di Cristo, realizzata tra la fine dell’ ‘800 e  gli inizi ‘900 dall’architetto Alfred Parland in stile neobizantino proprio dove venne assassinato lo zar Alessandro II) – c’è chi elemosina ancora un Rublo per sopravvivere. Così come ci sono quelle amiche della notte che alle 2 del mattino profumano il bar del Grand Hotel con le loro fragranze d’antan e ti chiedono se hai bisogno di compagnia.

In foto: Lazarev Bridge, San Pietroburgo

Il Museo Russo che sorge a due passi dalla Cattedrale della Resurrezione è una sorta di cassaforte dell’ex Unione Sovietica, il tesoro segreto di un Impero che già con gli zar, quando San Pietroburgo (poi chiamata Pietrogrado e successivamente Leningrado fino al ’91) era capitale della Russia prima di Mosca. Istituito con lo zar Nicola II in ricordo del padre Alessandro III, oggi custodisce opere legate al passato del paese con una forte vocazione all’autocelebrazione della sua grandezza grazie a pitture sovietiche, tele degli artisti Boris Kustodiev, Ivan Siskin e Kazimir Malevic nonché icone sacre.

Il Palazzo d’Inverno, nel cuore della città federale e portuale, già centro del potere, fa rivivere quelle atmosfere da romanzo di Fedor Dostoevskij e Lev Tolstoj per poi lasciare spazio al Museo-Teatro dell’Ermitage dove ancora oggi è possibile vedere in scena i balletti che ricordano quelli dell’antica compagnia parigina di danza classica chiamata Les Ballets Russes (i cui ballerini erano per la maggior parte russi) riproposti in salsa spettacolo da crociera ai tanti turisti disposti a pagare centinaia di euro per un biglietto senza posto assegnato. Da non perdere però Il lago dei cigni. Sede della famiglia imperiale dei Romanov fino alla Rivoluzione d’ottobre del 1917, il museo possiede una delle collezioni d’arte più belle del mondo con dipinti, tra gli altri, di Caravaggio, Monet, Rembrandt, Picasso e Van Gogh.

In foto: La notte di San Pietroburgo

Non distante la piazza del Palazzo con il suo Arco trionfale e la Colonna di Alessandro. Tra i canali del fiume Neva coperti dalle nuvole che vanitose si specchiano sull’acqua in ottobre, prima di cedere il passo alla neve del grande inverno russo, i nuovi bistrot, i ristoranti fusion ed europei si alternano a quelli tipici del posto dove carne, caviale e vodka fatta in casa non mancano mai (non c’è invece la Coca Cola, quindi bisogna accontentarsi della Pepsi, l’eterna seconda). E non mancano le risse fuori dai locali della nightlife in centro, etero e gay, che a quelli dedicati al Karaoke di Toto Cutugno accostano i club privé dove la virilità primeggia dopo qualche bicchiere di troppo. Mentre di giorno, sulla Prospettiva Nevskij cantata da Franco Battiato, continua non curante e sfacciata la vita di una metropoli che frenetica si è occidentalizzata ma porta con sé i segni culturali del regime sui volti e nei cuori della gente.


Di Gustavo Marco Cipolla
Calabrese, della sua terra porta con sé il ricordo e l’abitudine di tornare se ne ha voglia. Arte, Musica e Moda sono le tre (dis)grazie che lo accompagnano. Una laurea in Relazioni Internazionali, due master in giornalismo, tanti corsi e (ri)corsi di specializzazione, ma non ha ancora finito di imparare. E non finirà mai.