A Napoli, la doppia mostra di Diego Cibelli: ‘L’Arte del Danzare assieme’ al Museo di Capodimonte e ‘Gates’ alla Real Fabbrica della Porcellana. La nostra intervista all’autore.

Gli appassionati di arte contemporanea che dovessero passare per Napoli non possono mancare la doppia mostra di Diego Cibelli, presso il Museo di Capodimonte e presso la Real Fabbrica di Capodimonte. La prima mostra, intitolata, Diego Cibelli. L’Arte del Danzare assieme, aperta dal 13 maggio fino al 19 settembre 2021, al Museo e Real Bosco di Capodimonte, è inserita nel ciclo di mostre-focus “Incontri sensibili” in cui artisti contemporanei dialogano con la collezione storica del Museo e Real Bosco di Capodimonte. L’esposizione è frutto della collaborazione istituzionale con la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee-Museo Madre ed è inserita tra le iniziative nazionali di “Buongiorno Ceramica” che sono state programmate nel weekend del 15 e 16 maggio 2021 e organizzate dall’AICC-Associazione Italiana Città della Ceramica. La seconda mostra, che dialoga con la prima, si chiama Gates, a cura di Alessandra Troncone, nella Sala MUDI-Museo Didattico della Ceramica e della Porcellana presso l’Istituto Caselli-de Sanctis/Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte, Valter Luca de Bartolomesi. Sarà aperta fino a Luglio. Per conoscere meglio la genesi di queste due mostre e la storia dell’artista, FACE Magazine.it ha intervistato Diego Cibelli.

Come è nato il tuo percorso artistico?
Non c’è stato un vero momento, è stato tutto molto consequenziale. Fin da bambino ho avuto un’attrazione per il bello e l’arte. Ho avuto la grande fortuna di viaggiare molto, già a dodici anni visitavo le capitali europee. Al Centre Pompidou o nei grandi musei di Londra, non mi sono mai sentito piccolo, parlavo sempre con quella bellezza. Non ho mai avuto un senso di estraneazione di fronte ad essa. Anzi, metaforicamente ballavo con questa magnificenza. Questa consapevolezza mi ha fatto comprendere che l’arte era il percorso che volevo intraprendere e che ero pronto a fare sacrifici per questo, con uno spirito leggero, anche molto fresco. Dedico la mia vita alla ricerca, mi lascio completamente assorbire. Quando inizio una produzione, è sempre preceduta da una fase di studio. Di anno in anno, tento di lavorare sempre su nuove ricerche, non lavoro mai su committenza. Alla fine so dove voglio andare, fin da bambino sapevo, con serenità e leggerezza, quale percorso desideravo intraprendere e che la mia strada, con il tempo, si sarebbe definita. Sono di Scampia, un territorio molto complesso, ma allo stesso tempo interessante.

Ho investito tutto sulla mia formazione, studiato moltissimo perché sapevo che dovevo puntare su questo e così è stato. Scelte di cui non mi sono mai pentito. Ho avuto un percorso classico, ho fatto un liceo artistico in cui si facevano molti workshop in cui ti insegnavano come fare una ricerca e come documentarla in un portfolio. Poi ho fatto l’Accademia delle Belle Arti, in me c’era sempre la spinta a individuare un metodo progettuale. All’inizio ero indeciso, mi iscrissi a un corso di design del prodotto dove feci tutti gli esami, ma dopo un anno cambia idea e mi iscrissi all’Accademia delle Belle Arti. I primi tre anni li ho fatti a Napoli e poi mi sono trasferito a Berlino dove ho fatto una tesi sperimentale in geografia umanistica. Amo studiare il rapporto uomo-paesaggio. Al riguardo cito sempre la definizione che l’Unione Europea dà del paesaggio: “Il paesaggio nasce nella percezione dell’individuo. Quindi prendersi cura del paesaggio, vuol dire prendersi cura della percezione dell’individuo”. Sono due soggetti opposti, paesaggio e individuo che vengono messi sullo stesso piano.

© Diego Cibelli. L'Arte del Danzare assieme
© Diego Cibelli. L’Arte del Danzare assieme

Siamo figli del territorio in cui operiamo e viviamo?
Il territorio si iscrive sui nostri volti e viceversa, mi è sempre interessato come un elemento geografico diventi corporeo. A Berlino ho seguito per un anno una comunità curda che cercava di trovare una posizione in Germania diventando taxi drivers. Per farlo bisogna imparare a conoscere molto bene come muoversi in città. Hanno studiato per più di un anno tutte le strade di Berlino. L’esame finale consisteva in domande su come spostarsi più velocemente da un lato della città all’altro. Ti trovi in un punto A e devi arrivare in un punto x, in una città che si evolve sempre, estremamente dinamica. Ho creato un’opera di video arte, dal titolo Visitatio in cui i ragazzi curdi chiudono gli occhi e raccontano come raggiungere le varie direzioni della città e muovendo le braccia e il corpo creano una vera e propria danza shamanica che li mette in relazione con uno spazio geografico vero e proprio.

Sono persone che in contatto con una nuova cultura e una nuova casa, si modificano, evolvono in una città che anch’essa muta in continuazione. Mi piace osservare come questa relazione uomo-paesaggio, crei il senso della storia. La storia non è mai qualcosa che si appoggia su di noi, nasce da questa relazione. Senza questo rapporto non ci possono essere determinati avvenimenti. Non credo mai che la storia possa essere un qualcosa di già scritto, ma è nella relazione tra esseri umani e ambiente che nasce e si sviluppa. Da un punto di vista metodologico il mio lavoro nasce dall’osservazione di archivi, su quello che c’è. Non mi piace pensare agli archivi come qualcosa di rigido, come qualcosa di antico, mi piace immaginarli come una fonte moderna di osservazione. Nella maggior parte dei miei progetti c’è sempre un osservare dati, calchi e ceramiche. L’archivio è una modernità che si aggancia a una altra modernità, non vedo mai il tempo come un distacco. Un evento dell’antichità e uno attuale, sono per me come due eventi contemporanei ed interconnessi. Anche nei miei progetti, quello che si chiude, ha già in esso le radici del nuovo. Anche se visivamente i due prodotti possono sembrare diversissimi, in realtà sono figli di un dialogo in cui in uno c’è la radice dell’altro. La narrazione è il capitolo precedente che si è chiuso, si tratta di un progetto evolutivo, un duplice effetto. La ricerca fa parte della propria vita ed evolve con essa.

© Diego Cibelli. L'Arte del Danzare assieme
© Diego Cibelli. L’Arte del Danzare assieme

Come è proseguita la tua formazione?
Parlando di formazione, anche grazie all’Università Orientale di Napoli, ho avuto la possibilità di fare “stretching mentale”, grazie a molte tavole rotonde, mi sono avvicinato agli studi di decostruzione post coloniale. Finita l’Accademia delle Belle Arti ho poi ripreso gli studi di design del prodotto che non avevo portato a termine. Mi hanno sempre affascinato i vari significati che si nascondono dietro a un oggetto, sono sempre stati forme di testimonianza. Hanno sempre espresso la volontà dell’uomo, una metafora del percorso che vuole intraprendere. Basti pensare alle frecce preistoriche, su cui venivano incise alcune preghiere, in cui si chiedeva perdono per quell’atto di brutalità con cui l’uomo uccideva gli animali. Quindi è bello vedere come gli oggetti hanno sempre inglobato quei desideri e speranze. Ho studiato design perché pensavo che potesse darmi un metodo per la mia ricerca. L’Accademia ed il liceo artistico danno quella possibilità di poter spaziare tantissimo dal punto di vista delle tecniche, però per me è importante anche avere un metodo. Mi piace immaginare che l’opera d’arte debba stare vicino alle persone. Perché se parla del rapporto uomo e ambiente e della storia, non può stare distante da essi, deve stare vicino a tutti noi. Per questo mi piace immaginare le mie opere, come se fossero oggetti quotidiani che in qualche modo ti sussurrano nelle orecchie. Un amico che ti accompagna durante il giorno.

© Diego Cibelli. L'Arte del Danzare assieme
© Diego Cibelli. L’Arte del Danzare assieme

A un certo punto sei tornato a Napoli.
Sono due anni che sono tornato perché ho iniziato questo progetto sulle incisioni borboniche. Nascono con l’intento di dare un’amministrazione e un’immagine solida al regno. Il re Carlo III di Borbone aveva un piano politico molto preciso, voleva capire come il suo regno potesse essere attraente da un punto di vista europeo, per questo decide di catalogare i siti artistici e archeologici e di divulgarli attraverso forme d’arte facilmente riproducibili. Capisce che attraverso gli strumenti della cultura ci può riuscire. Mentre sta costruendo una villa a Portici, ritrova alcune antichità. Comprende che sotto terra c’è un tesoro, comincia gli scavi a Ercolano e Pompei e per testimoniarne le scoperte, non essendo ancora state inventate le fotografie, istituisce un’accademia che attraverso incisioni e stampe raccontano i ritrovamenti. Queste opere diventano delle vere e proprie ambasciate che diffondono le bellezze del regno in tutta Europa. Per documentare in modo scientifico, nelle incisioni si completano con linee geometriche le parti mancanti dei reperti o affreschi. Le incisioni e le stampe diventano gesto politico, diplomatico e di propaganda. Dimostrano come gli oggetti possano conservare dentro di loro dei piani politici.
Infatti, queste stampe vengono inviate in tutte le corti che contano e alimentano il Grand Tour, i viaggi dei nobili e intellettuali di tutta Europa in Italia e Grecia per ammirare le bellezze del passato. Il Regno delle due Sicilie diventa tappa fondamentale di questo peregrinare alla ricerca della storia e dell’arte. Esperienze locali che diventano in qualche modo esperienze globali. È questo che mi interessa. Mentre ricercavo questa cultura borbonica, in me aumentava un senso di appartenenza, perché riconoscevo che la mia cultura è formata da un senso di contaminazione, non è costituita da una sola strada, ma ne vedo tante, ci sono molti percorsi possibili. Ho cercato di restituire nelle mie opere questo valore della moltitudine che poi trova un equilibrio, un’armonia, proprio grazie alla moltitudine. Infatti, la carta da parati che espongo nella mostra ha in sé tante differenze messe insieme, dove si cerca un’armonia. Proprio per questa ricerca sono stato invitato dal Museo di Capodimonte a dialogare con la ricchissima collezione del conte trentino Carlo Firmian, conservate nel Gabinetto Disegni e Stampe del museo e con le collezioni di ceramica di Capodimonte.
Un dialogo che passa dal classico, attraverso le influenze dell’arte greca e romana, presente nelle stampe, le incisioni, le ceramiche della scuola di Capodimonte, per arrivare all’arte contemporanea.

Sono mondi che si parlano?
Sì, sono mondi molto interconnessi, in cui vedo la voglia di catalogare, di trovare delle spiegazioni e di trovare delle connessioni, tematiche molto settecentesche che tentano di dare un senso alla velocità e alla complessità. Ed’ è molto bello vedere come la cultura possa servire a questo, a creare uno spazio per ragionare su queste tematiche. Non mi stancherò ma di dire come “Incontri Sensibili” sia un format molto generoso. Oltre il confronto che un artista può fare, sull’insieme progettuale, quando ti confronti con una collezione di un museo, ti confronti con una vera e propria cultura progettuale ed è una cosa completamente diversa. Ti dà la possibilità di mettere a confronto il nostro mondo con un altro. Ci dice dove siamo, da dove siamo partiti e dove potremo andare.

© Diego Cibelli. Meditation in an Emergency, 2020
© Diego Cibelli. Meditation in an Emergency, 2020

Che emozioni ti ha creato questo dialogo?
Le prime emozioni che mi ha fatto scaturire questa ricerca erano le stesse di quando sfogliavo i libri a Port’Alba a Napoli, storica zona di librai, quando ero bambino. Mi immergevo completamente in quel flusso storico. Saltavo tra tantissime edizioni, da una, all’altra. Era come aprire delle porte ed entrare in mondi magici. Mi provocava una vera e propria scossa adrenalinica da cui faticavo a uscire. Ancora oggi, mentre inizio una produzione, faccio molta fatica a distrarmi. È come se pedalassi su una bicicletta che non si ferma mai. Ho provato una voglia incredibile di capire come le varie incisioni si susseguissero e come creare un collegamento con le mie opere. Quando lavoro provo le stesse emozioni di quando ero bambino, sono rapito dalla stessa magia. Provo la medesima curiosità, la stessa bellezza, potenza ed energia. La mia ricerca sulla collezione Carlo Firmian non è scientifica, ma emozionale. È una conoscenza empatica, legata all’immagine, a quello che mi può raccontare, a quello che posso mettere insieme e di conseguenza, su quello che può arrivare al pubblico. Ho spogliato i vasi dalle esperienze decorative e ho impresso, al loro posto, le linee dei codici geometrici con cui nelle incisioni si evidenziavano le parti perse delle opere d’arte romane, le lacune. Volevo partire da questi dettagli di queste incisioni in rame, matrici delle stampe, che giravano in tutto il mondo. È la prima strada, la prima traccia, che poi ne richiama molte altre. Alcuni vasi si ispirano a quelli ritrovati a Pompei ed Ercolano, altri a quelli della Real Fabbrica di Capodimonte, altre forme le ho create io. Ma tutte sono spogliate degli elementi decorativi classici e sono ricoperte dai codici geometrici.

© Diego Cibelli. Meditation in an Emergency, 2020
© Diego Cibelli. Meditation in an Emergency, 2020

Come nasce l’idea di far compenetrare le opere dalle incisioni?
In generale nella mia ricerca c’è sempre una volontà di dare al materiale un “passo in avanti”, una sorta di proiezione verso l’altro ed il futuro. Per questo associo tra di loro materiali diversi, facendo associazioni inedite. Per esempio ho fatto attraversare i vasi da delle lastre di rame che raffigurano le incisioni della collezione Carlo Firmian. Un gesto artistico per trasformare i vasi in una macchina con il motore ancora acceso, perché le lastre sono matrici, per stampare in più copie le stampe che facevano e fanno ancora circolare le immagini degli scavi archeologici, mentre i vasi erano e sono oggetti d’arte finiti. Quindi ho voluto fondere un oggetto, che è come un motore acceso, perché permette di riprodurre le stampe, con uno finito, il vaso. La matrice di rame dà quindi un cuore pulsante al vaso finito, finisce per trasformarlo anche esso in una matrice.

© Diego Cibelli. Domestic Exstremists, 2017
© Diego Cibelli. Domestic Exstremists, 2017

Sono mondi che dialogano come se fossero contemporanei.
L’idea è trovare una continuità, capisci da dove sei partito e dove stai andando. Facevo sempre un gioco quando ero piccolo, pensavo al mio presente e poi immaginavo dove sarei stato dieci passi nel futuro. Lo faccio sempre anche con le presone a cui tengo, cerco di immaginare dove saranno tra qualche giorno, tra dieci passi. Cerco di proiettarle, alcuni dicono che voglio controllare troppo, ma non è così, è una questione di affetto. Anche nei progetti tento di essere presente in tutti i gli aspetti, dalla ricerca, alla produzione, fino alla realizzazione. Nei miei team si creano sempre dei gruppi interdisciplinari, di diverse competenze. Prima di partire con la produzione di oggetti, per me è sempre importante osservare lo scenario di riferimento, capire di che cosa gli oggetti devono parlare. Lo scenario viene sempre studiato attraverso l’archivio, vi sono diversi attori che entrano in gioco, decido di volta in volta, come interagire con essi e quale è l’obbiettivo finale.

© Diego Cibelli. Domestic Exstremists, 2017
© Diego Cibelli. Domestic Exstremists, 2017

Vi è una seconda serie di vasi, sempre per Incontri Sensibili, con bracci che escono fuori, ispirati a quelli dei lampadari della reggia, paiono danzare in un ballo che sembra quello di Shiva.
Questa seconda serie è nata mentre facevo delle ricerche sulle referenze borboniche per la mostra, mi sono chiesto da dove nascesse questa esigenza di studiare le connessioni tra le parti, quale fosse il primo codice e mi sono imbattuto in un’opera di Paolo Mascagni, “Anatomia Universale”, pubblicata nel Settecento, sul corpo umano. Nell’opera di Mascagni vi sono tavole in cui sono dipinti, in modo sistematico, tutti gli organi di un corpo umano, mostrandone tutti i collegamenti, mi sono ispirato a quest’opera per questa seconda serie di vasi. Le protuberanze dei vasi sono una chiave di lettura per raccontare come la storia unisce tutte le persone insieme, come tutto sia interconnesso. Il libro di Paolo Mascagni è stato concesso per la mostra dal Museo Anatomico di Napoli, Musa.

© Diego Cibelli. Almost Home 2015

Sempre per Incontri Sensibili hai creato due opere in carta da parati, me ne parli?
La carta da parati nasce mettendo sulla parete di sinistra tutte le referenze sulle antichità di Pompei ed Ercolano, i ritrovamenti, gli affreschi, i vasi, mentre sulla parete di destra ci sono le referenze della collezione Carlo Firmian. Dal punto di vista espositivo ho collocati i vasi in mezzo a queste due opere in carta da parati perché i visitatori potessero cogliere visivamente e concettualmente da do mi sono ispirato.

Le stesse immagini delle stampe borboniche sono ancora oggi quelle iconiche che si utilizzano quando si vuole raccontare l’Italia. Ercolano, Pompei e i Campi Flegrei dialogano con la contemporaneità. Napoli è una città sopravvissuta tra due sistemi vulcanici. Il Parco Archeologico di Baia a Nord ed Ercolano e Pompei a Sud, raccontano in modo plastico il rapporto tra uomo e natura. In fondo Napoli rappresenta una sottile linea di terra, sempre scampata al bradisismo dei Campi Flegrei e alle eruzioni del Vesuvio. Questi luoghi del passato diventano icona pop, sia della fragilità della vita, ma anche della sua resilienza, del suo mutar significato. Un tempo città abitate, poi distrutte da cataclismi e oggi piene di turisti, prima di essere probabilmente inghiottite in futuro da una nuova eruzione o danneggiate da un fenomeno legato al bradisismo. Mentre Napoli nel frattempo si evolve nel mezzo di questi due super vulcani. Vivere in un territorio così complesso ha mutato la tua arte?
Il territorio lascia segni sui volti delle persone che lo abitano, pur avendo avuto una formazione internazionale, alla fine sono legatissimo al mio territorio. Il paesaggio di Napoli mi attraversa, è quasi una matrice.

Ci sono volti che spesso è facile associare a un luogo, volti diversissimi a quelli che troveresti a pochi chilometri di distanza. Questa mostra non poteva nascere se non fossi figlio di questa terra, se non fossi stato plasmato, attraversato da questo territorio.

© Diego Cibelli. Interlocking, 2016

Come hai interagito con il territorio di Berlino, come vi siete mutati a vicenda?
Oltre al significato che puoi trovare quando frequenti una città, è molto importante il rapporto con l’altro, le persone che frequenti. Io sono sempre stato abituato a essere autonomo, se fossi una bilancia, metaforicamente, saprei bene come equilibrarmi. Non è una solitudine, ma una forma di autonomia che si conserverà per sempre nella mia vita. Essendo cresciuto a Scampia, da bambino, ho imparato a comprendere che ero un essere singolo e che dovevo fare le mie scelte in autonomia. Sento dentro di me una sorta di unicità, ma allo stesso tempo percepisco la consapevolezza che quello che conta davvero nella vita, non è tanto la capacità di autoregolarsi, di sopravvivere, ma la capacità di entrare in contatto con i luoghi e con le altre persone. A Berlino per me era importantissimo interconnettermi con gli altri. Ho sentito il bisogno di interagire con tutti. Come quando entravo da piccolo nei musei e sentivo la bellezza che mi parlava, di Berlino ho percepito subito un’organizzazione culturale e sociale e ho immediatamente sentito il desiderio di interconnettermi con essa. Volevo conoscerne la bellezza nascosta in tutte le sue realtà, Berlino è una città che non si mostra subito, non di per sé bellissima, ma dopo un po’ ne comprendi la sua organizzazione, il suo mettere insieme molta gente interessante.Capisci che ci sei tu che ti autoregoli, ma che esiste un’organizzazione che mette in connessione tutti gli altri. Un po’ come i curdi che comprendono che devono organizzarsi per connettersi con Berlino, anche io ho compreso che dovevo organizzarmi e connettermi con la città.

In parallelo alla mostra per Incontri Sensibili, presso il Museo di Capodimonte, hai anche una mostra nella Real Fabbrica di Capodimonte, dal titolo Gates. La mostra è a cura di Valter Luca de Bartolomesi e Alessandra Troncone. Me ne parli?
Il progetto si inserisce in una serie di collaborazioni con artisti contemporanei per far dialogare il patrimonio e la storia della Real Fabbrica con la contemporaneità ed è promosso dall’Istituto Caselli e dalla Real Fabbrica di Capodimonte. Il titolo Gates allude a portali, oggetti che diventano metaforicamente luoghi di attraversamento, passaggi che rendono possibile la connessione tra momenti storici distanti e diversi scenari. Anche in questo caso il ragionamento e l’ispirazione da cui sono partito per creare le mie opere, è il patrimonio borbonico. In particolare, l’influenza che gli studi sulle antichità e sulle scienze naturali, promosse da Carlo III di Borbone, hanno avuto sulla produzione ceramica del XVIII secolo, contesto nel quale si inserisce anche la nascita della Real Fabbrica di Capodimonte. Per la mostra ho realizzato 130 opere, tutte non cotte, dei biscuits in terra rossa, gres, ceramica, porcellana e altri materiali. Non sono state cotte perché le opere sono ospitate nell’antica sala dei forni in cui si cuocevano le ceramiche prodotte dalla fabbrica di Capodimonte. Queste opere sono metaforicamente delle referenze in cui ho miscelato tutte le influenze antiche e contemporanee che hanno incrociato questo luogo e la sua produzione artistica.

© Diego Cibelli. Visitatio, 2013

Hai inciso sopra i biscuits simboli provenienti dalla storia della tua terra e della Real Fabbrica. Come li hai scelti?
Sono incisi simboli provenienti dal libro di incisioni intitolato, “Le antichità di Ercolano esposte”, dal libro di incisioni intitolato Olimpia e da un libro di incisioni borboniche intonato Flora Napolitana. Anche qui la ceramica è legata ad altri materiali e la parola crea spazio, la parola è sempre molto presente in Gates, la parola diventa coordinamento. Le opere diventano un abbraccio tra i vari elementi e influenze legate a questo luogo. Ho messo per terra della plastica con delle bolle per creare rumore quando il visitatore cammina, vi sono poi zone con moquette sul piano di calpestio, per creare piccole oasi di silenzio. Lo scotch che unisce le varie sezioni del pavimento è anche esso un’opera d’arte. Volevo firmare questa carta e ho trasformato lo scotch in una sorta di papiro.

Quando nasce il tuo rapporto con la Real Fabbrica?
Nasce nel 2009 con Serenissima, quando la curatrice Alessandra Troncone mi ha presentato la dirigente della Real Fabbrica. Da allora mi hanno invitato per diversi cicli di collaborazioni.

Anche in questo caso le opere d’arte diventano ambasciatrici di una storia e di una terra?
I biscuits, come le stampe e le incisioni, nascono come delle “ambasciate”, per portare dei messaggi, per questo ho aggiunto elementi contemporanei come le monete in Euro e le ho mischiate ai papiri della villa dei Papiri, perché si tratta della stessa storia.

Il percorso della mostra si conclude con germogli che nascono dalle tue opere.
La mostra si conclude con un reperto industriale storico, che è sempre esistito da quando esiste questa sala.

Ho voluto mettere sopra di esso alcuni biscuits che ho messo in dialogo con la terra e dei fertilizzanti, in modo tale che potessero crescervi dentro delle piante, simbolo di una nuova rinascita.

 


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.