Il Museo Duca di Martina in Villa Floridiana a Napoli ospita fino al 13 luglio la mostra di Nicola Vincenzo Piscopo. “Delitto Napoletano” è una contro-narrazione pittorica delle iconografie storiche partenopee. La nostra intervista all’autore e al curatore Alessandro Calvanese.

Di Luca Fortis

Fino al 13 luglio presso il Museo Duca di Martina in Villa Floridiana si potrà visitare la mostra personale Delitto Napoletano” di Nicola Vincenzo Piscopo, a cura di Alessandro Calvanese, realizzata in collaborazione con la Direzione regionale Musei nazionali Campania e i Musei Nazionali del Vomero e sponsorizzata dalla Cantina Sepe.
Il progetto si presenta come una contro-narrazione pittorica, una messa in discussione radicale delle iconografie che da secoli definiscono Napoli agli occhi del mondo. Attraverso un linguaggio che fonde pittura, installazione e archivio, l’artista opera una sottrazione minuziosa e chirurgica: rimuove il Vesuvio dalle immagini storiche e contemporanee del paesaggio partenopeo, creando un vuoto disorientante. È un gesto tanto poetico quanto politico, tanto ironico quanto drammatico. È un delitto. La morte del Formidabil Monte diventa un atto provocatorio che invita a riflettere sui molteplici volti dell’immaginario comune di Napoli come città storica, turistica, miracolata e pericolosa, accogliente e respingente. FACE Magazine.it ne ha intervistato Nicola Vincenzo Piscopo e il curatore Alessandro Calvanese.

© Nicola Vincenzo Piscopo

Nicola, si discute molto nel mondo cultura della rinascita napoletana, ma anche del rischio della brandizzazione. Personalmente, penso che in realtà tutto muti e ho trovato molto interessante la tua riflessione sulla rappresentazione iconografica di Napoli, immaginandola senza Vesuvio. Mi racconti com’è nata questa mostra?
Come gran parte del mio lavoro, questa mostra nasce sotto un impulso ossessivo che si presenta come necessità. Spesso queste ossessioni vengono fuori da una grande pluralità di ermeneutiche, ovvero la possibilità di interpretare molteplici messaggi che fanno sì che io riesca a rinunciare alla mia opinione personale. Cosa vuol dire Napoli senza Vesuvio non posso dirlo, ma posso domandare. Come tutte le mie opere, Delitto Napoletano nasce dal tentativo di rinunciare alle risposte e formulare al meglio la domanda.
Oltre questa fenomenologia del mio fare arte posso risponderti più chiaramente elencando una serie di stimoli e di conseguenza consapevolezze raccolte negli anni, come quella di essere un pittore napoletano sui 35 anni che non ha mai visto una fumata del Vesuvio, con l’invidia per i pittori storici ai quali rivolgo una grande passione. Parallelamente l’ aspettativa ridicola che si ha di un napoletano è quella di vederlo esprimersi in quanto tale. “Sei napoletano? fammi una pizza”. Sei un pittore Napoletano, fammi un Vesuvio in cartolina. Come confrontarsi con lo stereotipo? Come fare un ritratto di Maradona che sia originale e quindi non più vittima di inflazione?

© Nicola Vincenzo Piscopo – Foto: Antonio Battiniello

Nicola, Nadine Gordimer, premio nobel della letteratura e attivista anti-apartheid, soleva dire che, se da una parte era ineludibile scrivere opere sui diritti civili in Sud Africa, dall’altra amava dire che per essere un buon scrittore, non bisognava essere prigionieri del proprio essere attivisti,  si doveva fare la propria battaglia per i diritti in modo originale e imprevedibile. Parlando di cultura da Napoli, dai tempi di Plinio, ci si confronta con la presenza del Vesuvio, in mondo imprescindibile. Da artista, come fare a affrontare tematiche ineludibili, in modo non banale e senza esserne prigioniero?
Se per essere originali c’è una ricetta, in genere è quella di essere se stessi, ma per me è l’esatto contrario. Bisognerebbe non essere, non esserci, assentarsi, tradirsi e annullarsi. È un auspicio paradossale e impossibile, ma è questa tensione che mi fa sentire anonimo, quindi libero, perché la prima prigione di un umano è la sua identità. Questo è il motivo per cui rinuncio al privilegio della riconoscibilità a favore di una specie di voce plurale. Questo principio vale soprattutto se si vuole fare una mostra su un tema così inflazionato come l’immagine della Napoli da cartolina. Io non saprei dirti se la mia è un’operazione originale o meno, ma posso dirti che l’oggetto in analisi non è soltanto il Vesuvio nel tempo presente – come hanno fatto gli artisti negli ultimi 300 anni – ma è proprio la banalità e la scontatezza con la quale viene affrontata l’iconografia paesaggistica contemporanea. Il mio paesaggio napoletano è un ritratto della nostra banalità. Se fuggissi totalmente alla prigionia di questa banalità forse non la comprenderei.

© Nicola Vincenzo Piscopo – Foto: Antonio Battiniello

Nicola, mi racconti meglio questo concetto?
Nel caso di Delitto Napoletano, l’apparenza di alcuni atteggiamenti Kitch e Pop riguardanti la volgarità triviale con la quale si pronuncia l’assenza del Vesuvio, fanno sembrare tutto scontato, questa tutt’ora è una mia grande preoccupazione, nonostante io veda la banalità come un elemento necessario a operazioni come questa. Spero che Delitto Napoletano venga vista come un’operazione concettuale ed emotiva, che nelle varie forme espressive tra pittura e installazione site specific prova colpire importanti temi che riguardano la Napoli contemporanea e in generale tutte le turistopoli. 

Mi racconti le opere in mostra?
Le opere in mostra sono 5. Nel vestibolo al piano terra troviamo Delitto Napoletano, da cui trae il titolo la mostra, un olio su tela nel quale l’assenza del Vesuvio viene quasi messa in ombra dalla presenza di due amanti che, sotto il famoso pino che oggi purtroppo non c’è più, stanno dando l’ultimo saluto alla vista del tramonto.  Al primo piano incontriamo “Tempesta sul Golfo di Napoli con Naufragio di Savatore Fergola”, una riproduzione dell’opera originale esposta presso Gallerie d’Italia a Napoli. Un’opera in cornice ottocentesca, anche piuttosto ingombrante che nel contesto museale acquisisce delle caratteristiche di mimetismo marcato. “L’opera è sempre stata li”.

© Nicola Vincenzo Piscopo – Foto: Antonio Battiniello

Me ne racconti altre?
Infine abbiamo “Nostalgia”, “Grand Tour” e “Petit Tour”. La prima è una installazione che comprende un vecchio dispositivo per diapositive che proietta 80 diapositive nella buia sala da ballo del Museo. È una gita turistica per la Napoli degli anni ‘80. Grand Tour invece è una collezione di stampe su carta, ritagliate da libri di storia dell’arte napoletana, con interventi pittorici che vanno a sostituire e ricostruire l’immagine del soggetto in assenza quasi come fanno le intelligenze artificiali. Queste immagini sono incorniciate con un passepartout che compositivamente richiama al paesaggio napoletano. La cornice in radica di noce è un richiamo umoristico ad una vecchia tendenza nei ceti alti, tra avvocati e notai napoletani che tra gli anni 70 e 2000 acquistavano l’immagine napoletane come forma di vanto e orgoglio cittadino, spesso sotto forma di gouaches o copie di incisioni storiche. Di “Petit Tour” ti parlerò più avanti, perché mi hai chiesto di Kitch e serializzazione e come vedi questa è una mostra che scardina i principi della brand identity della città.

Mi racconti il lato più intimo che si nasconde dietro la mostra?
Mi ritrovo spesso ad affrontare questa mostra da un punto di vista più intimo: anche l’intimità è una questione pubblica talvolta, tutti ne abbiamo una e tutte si somigliano. La sparizione del Vesuvio per me è l’elaborazione di un lutto, in senso simbolico e privato. Il Vesuvio per i Napoletani è un’entità parentale, che possiamo amare solo da lontano, perché la famosa silhouette Monte Somma-Vesuvio nasce nella visione da Napoli, un’illusione tutta nostra nell’amore verso una figura che protegge e ci minaccia. Eliminato il pericolo, eliminato il miracolo. Ora bisogna essere indipendenti da questo cliché. Niente più cori da stadio sulla distruzione della città. Niente più campanilismo e orgoglio locale e niente più odio razziale. Appiattire Napoli è appiattire l’identità.
Ripartire da 0, guardarsi per la prima volta, ricostruirsi  per scelta, non per forza.
Dietro il grande lutto del Delitto Napoletano c’è una Napoli senza Napoli e un dolore che ti costringe a guardare oltre.

© Nicola Vincenzo Piscopo – Foto: Antonio Battiniello

Ci può essere un piacere nel disgusto, nel Kitch, nel pop e nella serializzazione?
Ho chiamato una delle opere Petit Tour, dal francese piccolo giro, ma soprattutto giro veloce, frettoloso. Kitch e pop sono i riferimenti culturali per quest’opera che parla di cattivo gusto, sovrapproduzione visiva, marketing e consumismo e capitalismo turistico. Si tratta di una stanza con circa 360 vedute napoletane, installate come un’ asfissiante quadreria dell’800, dipinte in maniera stereotipata e frettolosa, con la qualità scadente di chi deve vendere un prodotto a basso costo a un consumatore onnivoro e dai gusti corrotti e indelicati. La stanza è quella che contiene le teche con le porcellane del Gran Tour, risalenti all’epoca Borbonica in cui Napoli inizia a proporre al mondo la sua identità urbana, naturale e soprattutto politica. Tali servizi di porcellana erano offerti ai granturisti oppure usati come cadeau in occasione di visite diplomatiche. Questi oggetti sono gli antesignani dei souvenir, che divenuti pittura di paesaggio ad opera della Scuola di Posillipo e di Resina, passano per Andy Wharol e approdando infine alla stampa digitale, alla cartolina e alla calamita. “Vendi Napoli e poi muori”.

A volte, premettendo che sono un grande fan di Pasolini e che anche io amo la Napoli popolare che fu, trovo che ci sia un eccessiva nostalgia per quella Napoli problematica e una difficoltà ad accettare una Napoli con un immaginario più vincente. Cosa ne pensi? 
Sicuramente in maniera contrastante, perché è bellissimo vedere la città che splende sotto i riflettori che la aiutano a migliorarsi. Il problema non è accettare una Napoli vincente, perché i napoletani hanno sempre affermato di vivere nella città più bella del mondo, pure nei momenti di orrore. Anzi, l’immaginario vincente è qualcosa che ci piace davvero tanto. Pensiamo all’orgoglio delle quattro giornate di Napoli ma anche semplicemente a quello dello scudetto.
Non credo alla nostalgia della Napoli Stracciona, forse a qualcuno manca una Napoli priva di marketing, navi da crociera, strade con pericolosi sovraffollamenti e puzza di fritto ovunque. Gioisco e mi lamento della mia città, come ogni innamorato del proprio amore.

Alessandro, tu che hai curato la mostra, ti andrebbe di parlarci di come si contestualizza la mostra all’interno del Museo Duca di Martina?
La scelta di un contenitore adatto per ospitare un contenuto non può mai essere lasciata al caso. Per questa mostra è stato importante trovare il luogo adatto che potesse valorizzare al massimo il potenziale delle opere stesse, che per la prima volta escono dallo studio. Il Museo Nazionale della ceramica Duca di Martina, ha una storia pregna di significati, stiamo parlando di una villa acquistata dal re Ferdinando di Borbone per destinarla a residenza estiva nel 1817, solo cento anni dopo diventa un museo che a oggi ospita una delle maggiori collezioni italiane di arti decorative. Possiamo dunque intendere la maggiore complessità di abitare luoghi che non nascono con quell’intenzione espositiva. Ruolo importante lo assume anche la stessa Villa Floridiana che ci accompagna nel percorso per raggiungere il museo, uno scenografico parco che si trova sul crinale del Vomero, uno dei quartieri di Napoli da cui ammirare l’intera città. In questo fitto bosco, data la presenza di una vegetazione variegata, tra pini, platani, cedri e cipressi, proprio quest’ultima non permette una visuale sul golfo che comprende il Vesuvio. Questa condizione dunque, tramuta questo archivio distopico che Piscopo realizza con le sue opere, in realtà. 
Voglio aggiungere una piccola nota di merito all’opera Nostalgia perché si trova in quella che era la sala da ballo, concepita dunque per essere un luogo di aggregazione e convivialitá. Ma in questo caso si ribaltano le regole, infatti non si può entrare nella stanza, che si può vedere solo da fuori. Il pubblico è trasportato dalla proiezione di queste diapositive, generando un’esperienza immersiva, in una passeggiata malinconica in una Napoli che forse, non è mai esistita. 

Alessandro, mi racconti le riflessioni nate nel dialogo tra te e Nicola Vincenzo Piscopo?
Posso ammettere che il progetto espositivo è nato in maniera del tutto genuina. Conosco, in primis, Nicola e la sua persona; poi ho avuto modo di approfondire la sua esperienza da artista. L’ho seguito in studio quando dovevamo trovare il modo per individuare il luogo più adatto a ospitare questo inedito ciclo di opere. Insieme a persone a noi vicine abbiamo ragionato e scelto il Museo Duca di Martina come il contenitore più adatto. Mi ripeto: la scelta di curare la mostra, così come quella di portarla in mostra, è stata del tutto genuina, e credo che questo sia stato un grande punto di forza, perché da entrambe le parti è emersa una vera collaborazione tra artista e curatore. Credo che questa sia la condizione. Una citazione che mi piace sempre riprendere quando Nicola racconta il suo lavoro è: “Questa la considero come l’ultima possibilità di rappresentare il Paesaggio Napoletano.” In questa operazione ossessiva, insieme, abbiamo trovato il modo di costruire il progetto. 

© Opere: Nicola Vincenzo Piscopo – Foto: Antonio Battiniello