Dallo scorso mese di ottobre, i giovani iracheni sono in piazza per chiedere onestà, lavoro e servizi di base. Dalla capitale Baghdad al sud sciita, sono soprattutto le nuove generazioni a contestare il governo in carica e i partiti tradizionali. È una protesta imponente, cominciata all’inizio di ottobre, andata in stand by per la festa sciita dell’Arbaeen, i 40 giorni dopo l’Ashura, e ripresa il 25 ottobre con il suo carico di rabbia e violenze da parte delle forze di polizia.

Finora sono almeno 360 i morti, più di 2mila i feriti. Alla piazza, il governo ha risposto quasi sempre con la repressione più dura, inizialmente ha anche chiuso internet e imposto il coprifuoco a sud. I poliziotti hanno aperto il fuoco sulle marce, sparato lacrimogeni e proiettili di gomma, annullando le promesse che il premier Adel Abdul Mahdi ha messo sul tavolo sperando di evitare la ribellione: riforme economiche non meglio identificate e rimpasto di governo.

Il 3 gennaio la crisi in Iraq ha raggiunto il suo apice, quando un attacco aereo statunitense ha ucciso il comandante iraniano Qassem Suleimani, generale dei Guardiani della rivoluzione, mentre si dirigeva all’aeroporto di Baghdad. I venti di guerra però non hanno fermato le proteste. I manifestanti considerano la crisi tra Stati Unini e Iran – Iraq, un modo per distogliere l’attenzione da tre questioni interne: il procedimento di impeachment di Trump, la nuova ondata di proteste in Iran e le manifestazioni che in Iraq si sono diffuse in dieci città.

Iraq. Le proteste in piazza (Zuma Press)

L’Iraq di oggi è un paese con uno dei più alti tassi di corruzione al mondo, mai ricostruito dopo l’invasione statunitense del 2003 e dove il 60% della popolazione vive con meno di sei dollari al giorno, nonostante le quinte riserve al mondo di petrolio che il paese possiede.

I più giovani sognano un nuovo Iraq, chiedono una nuova carta costituzionale, un tribunale per processare i corrotti e riforme reali di redistribuzione della ricchezza. Legandosi, con un filo invisibile, alle proteste sociali che in questi mesi hanno investito molti altri paesi del mondo, dal Cile al Libano, da Hong Kong all’Egitto.