I dati sono a dir poco allarmanti. E fotografano un’Italia stanca del paese che non cresce e annega nella sua incapacità di premiare il merito e offrire opportunità e lavoro qualificato. Dell’Italia che emigra sono sempre di più, infatti, gli under 40, e spesso si tratta di laureati, in cerca di impiego. Per sempre o per un’esperienza che ripaghi dopo anni di studio, più e soprattutto meglio di quanto faccia il Bel Paese. Anche se, sul totale di chi è andato via in questi ultimi anni, il 52% ha superato i 40 anni: parliamo di chi in Italia ha perso il lavoro da adulto e non riesce e reinserirsi nel mercato del lavoro o decide di vivere gli anni della pensione in paesi caldi dove il potere d’acquisto del trattamento Inps è più alto.
I dati ufficiali sono relativi al 2013 e sono forniti dall’Aire (l’ufficio del ministero degli Interni che registra i trasferimenti dei cittadini in altre nazioni).

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I flussi in uscita totali sono aumentati del 19 per cento
, che sommato al 30 per cento del 2012, significa che in soli due anni, gli italiani che hanno varcato i confini sono cresciuti del 49 per cento. Da 61mila nel 2011, ora superano i 100mila. Clamoroso è il dato dei ragazzi italiani che vanno in Inghilterra: nel 2013 il balzo è stato dell’81%. Di questi, il 71% è under 40.
I dati sono però parziali poichè secondo gli esperti di flussi migratori soltanto un italiano su due di solito comunica il suo trasferimento all’estero al Ministero.
Anche nel 2013 gli italiani hanno scelto il Vecchio Continente: la Gran Bretagna rimane saldamente al primo posto tra i nuovi arrivati (12.904), seguita dalla Germania (11.713), Svizzera (10.300), Francia (8.342) e Argentina (7.496), il primo dei paesi non europei. Il Brasile – primo tra i paesi emergenti – ha raggiunto il sesto posto e ha superato gli Stati Uniti, ora settimi.
L’inghilterra batte tutti, dunque. Un dato che ha fatto infuriare il premier Cameron che ha minacciato pochi giorni fa di chiudere le frontiere e uscire dall’Unione Europea: “La libera circolazione sta favorendo troppo l’immigrazione di italiani, a scapito dei residenti”.

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Dati, quelli dell’Aire, a cui si aggiungono quelli forniti da Migrantes, secondo i quali il numero di chi va via è oltre il doppio di chi arriva: gli immigrati che arrivano in Italia sono appena 43.000. Di cui ovviamente non fanno parte, per ovvi motivi, irregolari e clandestini.

Nel mondo oggi 4,5 milioni di connazionali vivono fuori dall’Italia. Praticamente, un’intera regione. Ma chi sono i 100.000 che nel 2013 hanno lasciato l’Italia? Più uomini che donne (56% contro 44%), più 30-40enni (24.001) che 20-30enni (21.515). A partire sono soprattutto gli abitanti del Centro e del Nord. Guidano la classifica lombardi e veneti, seguiti dai laziali. In molti casi si tratta di persone che non tornano in Italia ma restano all’estero. E le cause non sono solo la mancanza di lavoro: a far fuggire sempre più italiani è l’immobilismo di un paese percepito come conservatore e incapace di rinnovarsi, stretto da illegalità e logiche clientelari.

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Noi abbiamo incontrato 5 giovani italiani che sono andati via e hanno costruito altrove la propria vita e carriera. Abbiamo chiesto loro perché hanno lasciato l’Italia, come ci vedono da lontano e cosa sperano per il loro, e per il nostro, futuro.

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Giorgio Calastri è lombardo, oggi ha 37 anni e ha lasciato l’Italia quasi 9 anni fa per trasferirsi a Madrid, dove attualmente lavora come traduttore autonomo. “Ho deciso di lasciare l’Italia perché mi sentivo in trappola: avevo 30 anni e dopo 2 anni di intense ricerche, lavoravo ancora senza contratto! Cose da far west… Un mese in Spagna è bastato per cambiare radicalmente la mia situazione. All’Italia manca il saper apprezzare le qualità e la professionalità delle persone. Non importa che tu abbia studiato, che abbia esperienza: vieni comunque trattato come se tu queste qualità non le avessi. E poi – ahimè – in Italia manca tanto senso civicoDell’Italia mi mancano i miei amici, la mia famiglia (più che altro i miei nipoti) e il cibo, anche se devo dire che la cucina spagnola è ottima, molto più di quanto pensassi. Niente altro. Diciamo che al momento non potrei proprio pensare di ritornare in Italia. Insomma, l’Italia è un paese molto bello, ma per tornarci in vacanza. L’unica possibilità che vedo di ritornare sarebbe è per quando andrò in pensione. Tranne che in politica (durante gli anni di Berlusconi tutti mi chiedevano come potessimo votare un condannato e ogni volta per me era un grande imbarazzo) la percezione dell’Italia in Spagna è molto positiva. Basta dire che sei italiano e già ti considerano un primo-hermano (cugino-fratello), come si dice in spagnolo. Siamo due popoli molto simili, anche se a mio avviso, gli spagnoli ci superano in tanti ambiti”.

1935876_1210285533707_31234_nRoberto Falanga ha 31 anni, si è laureato nel 2009 in psicologia e ha intrapreso la carriera accademica a Coimbra, in Portogallo. “Il mondo accademico – ci racconta – mi aveva sempre affascinato, quindi, concorrere per un Dottorato mi sembrava il percorso più adatto per cominciare. Mi candidai e ricordo ancora che alla prova scritta si avvicinò un professore della commissione a chiedermi di soppiatto “E a lei chi la presenta?”. Per me quell’episodio segnò un arrivederci Roma. Preparai la candidatura per Coimbra. Scrissi un progetto, mandai le mie referenze e fui accettato come Dottorando borsista. Sono arrivato in Portogallo ignaro di cosa mi aspettasse e ho imparato ad amare questa terra negli anni, permettendomi di criticarla con l’affetto che ormai mi ci lega. All’Italia, come al Portogallo, credo sia mancato il coraggio di prendere una decisione politica dinanzi al disastro economico, sociale e culturale degli ultimi anni. E’ mancata la piena coscienza della portata che lo smantellamento dello Stato, del servizio pubblico, della garanzia del benessere e del regolamento del mercato avrà sulla nostra generazione. Dell’Italia mi manca la coscienza e l’animazione politica che l’ha sempre contraddistinta in ambito europeo e che negli ultimi anni però é stata annegata nella spettacolarizzazione del dibattito politico, della dialettica da quattro soldi. Non mi manca per niente l’overdose di parole che scorrono su giornali, tv, web e vaffacomizi. Poi c’è la mia Roma, di lei mi manca la romanità, quella brillante, sarcastica e cattiva nel modo giusto. Mi mancano gli sguardi piacioni per strada che ti fanno sentire vivo, mentre spesso in Portogallo c’è troppo pudore, troppa disciplina. Tuttavia di Roma non mi manca per niente la volgarità gratuita e arrogante che si incrocia per strada o che trovi in tv. Il mio futuro sarà dove avrò la possibilità di lavorare dignitosamente, possibilmente fare quello per cui studio da anni, e costruire una famiglia. Sento che tornare per tornare non avrebbe senso e finirebbe per frustrarmi. Quindi no, per ora non sogno l’Italia e non esiste un progetto-Italia nel prossimo futuro.

mario russoMario Russo, 30 anni, è architetto, ha vissuto a Parigi ed ora vive a San Francisco; è andato via dall’Italia “per affrontare nuove esperienze lavorative, più dinamiche e meglio retribuite”, come ci spiega.
“All’Italia – ci dice – manca un efficiente sistema di controllo e di tutela della situazione dei lavoratori. Personalmente sento molto la mancanza del calore e della spontaneità degli italiani, ma allo stesso tempo non ho molta nostalgia per l’attaccamento maniacale alle tradizioni.
Mi auguro un giorno di tornare nel mio Paese”.

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vito (1)Vito Calvani, classe 1979, barese di nascita e cresciuto a Sabaudia, poco dopo la laurea in Giurisprudenza si è trasferito a Parigi dove da cinque anni lavora come responsabile di servizi bancari. “Non volevo più dipendere da nessuno. Lo ammetto: dell’Italia mi mancano l’atmosfera vitale delle piazze, i sapori ancora poco intaccati dal global food, soprattutto mi manca il mare. Ma non mi manca per niente la coltre di clientelismo e nepotismo sotto cui tutto è sommerso, quel tirare a campare senza poter costruire nulla”.

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endrio (1)Gli fa eco Endrio Martufi, di Latina che con lui si è trasferito nella capitale francese dopo una laurea in Lettere e che oggi, come lui, gestisce servizi bancari. “Perché mi sono trasferito a Parigi? Principalmente, per cambiare lavoro: in Italia ho provato di tutto, dai call center ai contratti a progetto. Mi stavo ammalando di depressione. Non ne potevo più di vivere in un Paese basato sul sistema delle raccomandazioni e dove la disonestà è all’ordine del giorno. E poi oggi vivo in una società che rispetta i diritti civili e che offre ai lavoratori garanzie degne di una nazione democratica e sviluppata”.

Entrambi sono d’accordo su una cosa: “potremmo tornare solo se l’Italia cambiasse radicalmente, guardando al futuro. E’ una nazione immobile e così ci vedono i francesi che del Bel Paese invidiano la cucina, il patrimonio artistico ma non certo i luoghi comuni che ci precedono nel mondo alimentati, purtroppo, da una situazione politica e sociale sempre più precaria. In realtà in Francia il sistema di assistenza sociale è talmente sviluppato che gli stessi francesi non si rendono conto di quanto in Italia si patisca l’incapacità della classe dirigente”.