L’emergenza Coronavirus ha innescato inevitabili riflessioni e ragionamenti su come ripensare, risolvere, rilanciare il mondo dell’arte, sia nel suo essere sistema economico, sia nel suo essere azione creativa. L’arte mainstream, sicuramente sopravviverà ma la frangia indipendente, gli artisti che fino a poco tempo fa, con estremi sacrifici, riempivano spazi alternativi e periferici, non figurano nemmeno come meme per sdrammatizzare l’emergenza Covid. È chiaro che l’arte e gli artisti indipendenti valgono meno dello spriz delle 18, non solo per il potere governativo ma anche per le persone “comuni”.

Qualche giorno dopo il lock-down, quando le dirette da casa incominciarono ad affollare i social, scrissi ad un mio amico questo messaggio:

“L’arte è quella cosa che ha a che fare con la puntualità, con l’attesa. Le file per sedersi al proprio posto o per accaparrarsi con avidità la sedia libera che più piace, sgomitare per vedere e sentire bene, stare nel silenzio più desiderato. L’arte ti fa uscire, ti porta verso l’altro anche quando l’altro non è simpatico. Trafficare, pensare, ragionare, ridere. La risata, le risate. Il pianto i pianti. È un singolare plurale. Non è semplicemente il quadro, lo spettacolo, il concerto, il libro ma è la dinamica tutta. L’andare, il lasciarsi andare, muoversi e muoversi stando fermi. L’arte cambia? O muore senza tutto questo? L’arte è tutto questo? Forse ci manca più il pubblico che l’arte. Forse il pubblico è l’arte. L’arte non si accontenta dell’immaginazione. L’arte non è un orso, la riflessione non è il letargo”.

Ora non ci credo più tanto. Purtroppo c’è una società che vede gli artisti come dei furbacchioni sfaticati che fanno finta di saper fare cose. Non posso essere magnanimo con quelle persone che dicono: sì ok ma ci sono tante categorie più a rischio della vostra.

Mi dispiace di aver scoperto l’acqua calda ma evidentemente questo virus mi ha fatto immergere la mano nella pentola e sì, l’acqua è calda ma nonostante tutto continuo a sperare che domani possa essere fredda. L’arte indipendente è una piccola comunità frammentata, qualcosa di non definibile, qualcosa che si illude di essere indipendente. Ma da cosa? In Italia di artisti indipendenti e “full time” ne abbiamo pochi, molti artisti per sopravvivere eseguono anche dei lavori “tecnici” all’interno dei sistemi più “convenzionali” come fonici, tecnici luci, grafici, alcuni vanno (andavano) in ufficio, nei bar, nei ristoranti. Il non riconoscimento del lavoro del dj, del producer di elettronica, del musicista, del visual artist, del regista, dell’attore e così via ha determinato che la maggioranza degli italiani non notano questo vuoto, né notano che questi “artisti” non hanno più risorse, se non quelle minime date dal lavoro “convenzionale” che oggi in periodo di pandemia latita. Con l’avvento del virus, l’arte underground italiana è lasciata sola anche dallo spettatore che assomiglia a un congiunto adultero che ci ostiniamo ad amare e di riconquistare nonostante l’evidenza dei suoi continui tradimenti. Il Covid ci ha fatto scoprire che per avere la frutta comodamente sul tavolo abbiamo bisogno della brutta e cattiva manovalanza straniera e dei migranti ladri di lavoro. Il Covid ci fa scoprire che il pubblico non c’era prima e non c’è ora.

Pasquale Passaretti, Indaco Fest’19, Roma

Ma la parola d’ordine è aprire. Aprire cosa? Aprire per chi? Mi spaventa quasi più questa apertura al vuoto, che la storicizzata mancanza di rispetto che la politica ha per l’arte e per i fragili. Mi spaventa più l’ennesimo meme sul politico di turno, che la mancanza di visioni (passate, presenti e future) di chi per lavoro dovrebbe farci sentire meno soli. Mi rende più triste la diretta da casa, che l’ennesimo progetto di fuga dell’ennesimo amico/amica verso Parigi o Berlino dove la ministra della cultura Monika Grütters dichiara che: “Gli artisti sono indispensabili e vitali, soprattutto ora per non lasciare le persone sole”. Come possiamo notare, qui è lo stato che chiede aiuto agli artisti, versando somme che arrivano fino a 5.000 euro. Tralasciamo l’esterofilia e ritorniamo al senso d’inadeguatezza nostrano. Un stato d’animo pre-pandemico conseguenza di anni in cui gli artisti indipendenti che, pur “collezionando” più giornate lavorative delle trenta richieste per il sussidio, non hanno preteso diritti, dicendo troppi sì a strutture e a persone che meritavano dei grassi no. I giorni passano, i ragionamenti cambiano e ciò che sembra giusto ora, domani potrebbe non esserlo, ma intanto continuiamo a sognare un boom creativo made in Italy post Covid o una rifondazione totale del settore cultura. Personalmente non mi importa, ci sono abituato, per noi teatranti il distanziamento di sicurezza non è una novità.

* Di Pasquale Passaretti. Attore e autore direttore artistico di Lunarte Festival