Il 19 luglio del 1992, la strage di via d’Amelio insanguinava le vie di Palermo. La mafia uccideva il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina. In questo quarto di secolo sono stati ben quattro i processi celebrati per fare luce sull’assassinio del magistrato palermitano. Trenta i giudici coinvolti nei dieci processi di mafia con altrettanti pubblici ministeri, una pletora di avvocati. Eppure ancora oggi rimangono molteplici gli interrogativi e i dubbi sulla strage. Come le modalità del depistaggio, chi lo ha condotto, i motivi che hanno portato a depistare le indagini. E poi il mistero sulla scomparsa dell’Agenda rossa, il diario dove Borsellino annotava intuizioni, spunti e ipotesi d’indagine, divenuta poi uno dei simboli della lotta contro la mafia. Ma soprattutto restano le ombre sui pupari, cioè i registi che hanno ideato e portato avanti il clamoroso depistaggio andato in onda nelle aule di Tribunale. E su tutto, i sospetti sugli apparati dello Stato che ben poco ha fatto per proteggere Borsellino e Giovanni Falcone, ucciso 57 giorni prima, nella strage di Capaci.

La figlia: «Siamo stati abbandonati. Procura massonica»
In un’intervista rilasciata ieri al Corriere della Sera, Fiammetta Borsellino, figlia del giudice, ha dichiarato: «Le indagini a Caltanissetta? Era una Procura massonica e i suoi colleghi non ci frequentano». Le accuse della donna sono molto pesanti: «Ai magistrati in servizio al momento della strage di Capaci rimprovero di non avere mai sentito mio padre, nonostante avesse detto di volere parlare con loro. Dopo via D’Amelio, riconsegnata dal questore La Barbera la borsa di mio padre pur senza l’agenda rossa, non hanno nemmeno disposto l’esame del Dna. Non furono adottate le più elementari procedure sulla scena del crimine. Il dovere di chi investigava era di non alterare i luoghi del delitto. Ma su via D’Amelio passò la mandria dei bufali». E sul suo intervento la sera del 23 maggio durante la diretta di Fabio Fazio ha detto: «Dopo la mia esternazione non c’è stato un cane che mi abbia stretto la mano. Fatta eccezione per alcuni studenti napoletani e Antonio Vullo, l’agente sopravvissuto in via D’Amelio. (…) C’erano giornalisti, uomini delle istituzioni, intellettuali palermitani. Da nessuno una parola di conforto».

Agrigento, un altro oltraggio alle vittime della mafia
A poche ore dal 25mo anniversario della strage di via D’Amelio e dopo appena una settimana dall’oltraggio alla memoria di Falcone, un nuovo gesto ha tentato di ferire ieri la memoria di un simbolo della lotta alla mafia. La stele in onore di Rosario Livatino ad Agrigento è stata fatta a pezzi. Il magistrato è stato ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990. Unanime è stata la condanna del mondo politico. Per il presidente del Senato, Pietro Grasso, il gesto è un “inutile tentativo di infangare così la memoria e l’esempio di chi ha onorato l’Italia con impegno e coraggio”.