Il nuovo decreto del Presidente del consiglio dei ministri chiude bar, locali, attività sportive e di ristorazione, ma anche teatri, cinema ed ogni attività culturale operante in Italia. Settori lavorativi che da 8 mesi pagano il prezzo più alto della pandemia, nonostante abbiano dimostrato di riuscire ad adeguarsi al susseguirsi di nuove norme, rispettando ogni Dpcm.
Solo con la chiusura di cinema e teatri, sono a rischio 142 mila posti di lavoro. Senza considerare l’indotto, quello turistico in primis. Un danno economico di svariate miliardi di euro: la prospettiva del baratro per un fiume di lavoratori e figure professionali spesso non tutelate anche perché, a volte, difficilmente inquadrabili secondo le tradizionali tabelle dei codici Ateco. Non solo artisti e dj, ma anche promoter, organizzatori, liberi professionisti e curatori non iscritti alle specifiche casse previdenziali previste per lo spettacolo. E tanti imprenditori culturali che, con la stagione estiva, avevano ricominciato faticosamente a respirare.
Molti festival, strutture e rassegne rischiano di non poter più rialzare il sipario e i ristori promessi, nella migliore delle ipotesi, arriveranno solo ad una parte e in tanti ne resteranno probabilmente, ancora una volta, fuori.
La cultura paga il pregiudizio di non essere considerata essenziale. È tempo libero, ci dicono. Eppure, oltre all’enorme valore in termini di Pil e posti di lavoro, rappresenta un presidio sociale prezioso come pochi, soprattutto in questa fase di depressione collettiva. Un patrimonio in grado di contribuire a ridurre il crollo emotivo e psicologico di tante e tanti, provati e stremati da una pandemia che sembra non aver mai fine.
La lettera aperta degli assessori alla cultura delle città italiane, inviata al ministro Franceschini è stata, di fatto, rinviata al mittente. Si chiedeva di lasciar lavorare chi è in regola ed è in grado di garantire il rispetto di ogni misura utile a frenare l’avanzata del virus. Benché non accolto, l’appello del mondo della cultura è (quasi) unanime e ci associamo anche noi, perché ascoltare musica o assistere ad uno spettacolo in poche decine di persone, distanziate e con mascherina, non sarà sicuramente più rischioso delle innumerevoli scene che tutti vediamo ogni giorno fino alle 18, sui mezzi pubblici come per strada, negli uffici o all’uscita delle scuole. Non vi è alcuna evidenza scientifica che dimostri l’esistenza di cluster sviluppati in cinema o teatri: l’emergenza dei nostri giorni è innanzitutto quella di capire che a mettere a repentaglio la salute di tutti, soprattutto dei più deboli, non sono specifici settori o fasce orarie, ma i comportamenti individuali irresponsabili, alle 12 come a mezzanotte. La cultura è un antidoto al buio della ragione, ma è anche una luce in questo interminabile tramonto in cui siamo immersi da marzo. Salviamo la salute, quella fisica come quella mentale, ma non spegniamo le luci delle nostre città.