“Mi chiedo cosa significhi oggi raccontare storie, se per raccontare occorre qualcuno che racconti e qualcun altro che ascolti. E me lo chiedo perché pare che di ascoltatori non ce ne siano più. Tutti vogliono raccontare, anche chi non ha una bella storia in testa ma solo la necessità di svuotarla. Allora, tornando alla mia domanda, che senso ha continuare a scrivere storie? se le librerie sono piene di non-libri e quelli che vengono definiti scrittori sono alla fine, showmen, politicanti, youtuber e assassini? Che senso ha, se conta più avere follower che lettori? se i grossi editori commerciali vanno a caccia dei profili social più cliccati, anziché di storie profonde che trattino le contraddizioni irrisolvibili dell’essere umano? In base ai clic, vengono scelti gli autori da pubblicare, e se un libro non c’è, glielo scrivono loro, basta mettere un hashtag al posto del titolo e la foto del blogger di turno in copertina per garantire il successo in libreria.

Ernesto Sabato diceva che “il successo rende l’uomo un essere schifoso”. L’insuccesso, ovvero stare qui alla scrivania a guardare youtuber di 15 anni che non sanno mettere insieme una frase, intervistati in prima pagina sui giornali nazionali e in tutte le vetrine del centro, è allo stesso tempo frustrante e non sembra lasciare alternative: gli scrittori veri si sono ridotti a imitare quelli falsi, hanno lasciato il loro posto di lavoro, che è un posto solitario, e sono diventati social per ottenere follower e pubblicazioni.

Credo che ci sia bisogno di ricostruire una distanza tra autori e lettori. Ciò non significa rinchiudersi in una torre, ma dialogare al giusto ritmo, ridando alle parole il peso che avevano quando agli scrittori si inviavano lettere di carta e si aspettava mesi per ricevere una risposta, una risposta che aveva più valore di qualsiasi post, commento o cuoricino. Ricordo bene il giorno in cui ho scritto una lettera a Erri De Luca, gliel’ho fatta recapitare di persona perché ho conosciuto la donna che lo ha cresciuto, una specie di seconda madre. Sapere che uno degli scrittori che amavo e che mi sembrava così irraggiungibile avrebbe letto le mie parole, ha colmato tutte le attese degli anni successivi. Questo lavoro è fatto soprattutto di attese.

Scrivere è un’attività silenziosa, fatta di lunghe ore di solitudine, piena di codici rigidi che rispetti fin da quando impari a tenere la penna in mano. Scrivere sui social network invece, oltre che indurti alla superficialità e al pressapochismo, può diventare una perdita significativa di energie. Io ci ho provato per un po’. Nonostante la gioia di vedere in faccia le persone che leggevano i miei libri e interagire con loro quando commentavano i miei post, il modus operandi di Facebook, la maniera in cui le sue funzioni sono studiate per fare perno su determinate emozioni e guidare ogni tua scelta, il fatto stesso di credere di usare una piattaforma che in realtà ti sta usando, mi hanno dato l’impressione di far parte di un meccanismo assurdo, che gradualmente e subdolamente ti spinge a una presenza sempre più arrogante e più rumorosa.

Ho collezionato in pochi mesi 1.500 follower (come si collezionano le figurine dei calciatori). Ottenevo centinaia di like ai post in cui c’era il mio bel faccione, un po’ meno a quelli in cui si parlava di libri, e ancora meno a quelli in cui condividevo le recensioni dei miei romanzi. Ciò che mi preoccupava però non era constatare che i libri interessano sempre meno soprattutto se a parlarne è l’autore stesso, ma un’altra cosa: senza rendermene conto avevo iniziato a giudicare la bellezza di ciò che scrivevo in base ai like che ricevevo, ero entrato nella spirale. Avevo dimenticato il motivo per cui scrivevo, che non è certo accumulare “mi piace”, ma per lasciare la mia testimonianza, discretamente, con la speranza che chi legge le mie storie le racconterà a sua volta alle persone che ama, o a quelle che odia, per trasformare l’odio in amore.

La discrezione… “Questo lavoro ha perso la sua discrezione”. Lo ha detto Roberto Cotroneo di recente in una serie di post sul suo profilo Facebook, chiuso e riaperto dopo qualche settimana, forse in preda a riflessioni simili alle mie. E se quelle riflessioni erano invece pretesti per ottenere più commenti e più popolarità in rete, allora vuol dire che non si può più distinguere uno scrittore vero dall’ennesima vittima di questo sistema spietato di competizioni di ogni sorta.

Il caso di Cotroneo comunque non è l’unico. Da diversi anni gli scrittori hanno affermato il loro ruolo di osservatori e hanno sollevato dibattiti coinvolgenti sull’andamento della nostra società, sempre più liquida e impalpabile. Il problema è il posto in cui questi dibattiti si sono andati sviluppando: proprio nei social network. Ma i social network sono progettati per dimenticare ciò che si dice, non per ricordarlo, e per creare dipendenza, per stancare. Stimolano in mille modi il tuo ego, ti insegnano l’autocelebrazione che negli ultimi 10 anni, sul modello statunitense, ci siamo cuciti addosso anche noi diventando noi stessi, e non più i nostri libri, dei prodotti da vendere sul mercato. In cambio ottieni visibilità e contatti a costo zero.

Frank Iodice. Foto: Marek Fogiel

Grazie a Facebook, ho conosciuto importanti giornalisti e critici che hanno scritto belle parole sui miei romanzi. Sono stato invitato a festival letterari e in decine di scuole in cui ho regalato diverse migliaia di copie del mio libro sulla felicità; e ho avuto tante altre soddisfazioni e altrettanti incontri piacevoli, incluso quelli finiti in camera da letto. Ma il prezzo è stato carissimo: ho sacrificato il mio tempo, la mia concentrazione. Mi sono distratto. Che è quello che vogliono i politici che finanziano lo sviluppo sempre più diabolico di queste piattaforme. E non scrivevo più nulla. A conti fatti, quindi, non ne è valsa la pena.

Stanotte, davanti a questa pagina vuota, senza notifiche da controllare, messaggi a cui rispondere, follower che aspettano il tuo nuovo post, la tua nuova foto, ecco, stanotte mi sento di nuovo libero, a mio agio con la scrittura. Al mio posto. Uno scrittore non dovrebbe fare il ruffiano di se stesso spiattellando sul suo muro le recensioni dei suoi romanzi e le fotografie delle sue presentazioni. L’autopromozione è noiosa, controproducente. Non sta a te promuovere te stesso, sta a tutti tranne che a te.

L’ideale sarebbe postare solo estratti o brevi racconti per diffondere la bellezza delle tue opere. Sarebbe bello, è vero, se non servisse a farle copiare e ritrovarle pubblicate altrove. Ed è così che finisci per parlare di tutt’altro tranne di quello che ami. Diventi un tuttologo che vuole dire la sua su ogni avvenimento, perché Greta ha dato dati sbagliati, perché al Salone hanno escluso l’editore di CasaPound o perché è meglio mangiare frutta e legumi in quantità maggiore rispetto a carne e formaggi. Diventi un essere odioso e presuntuoso, e la colpa non è tua ma di chi ha progettato quelle piattaforme per fare in modo che tutto ciò accadesse. Come fare allora per non piegarsi alla legge del web, che impone una presenza costante per mantenere una tensione emotiva altrettanto costante e taglia fuori tutti coloro che non hanno un account social? Se esci sei come morto, mi hanno detto gli addetti ai lavori che ho consultato stamattina, chi non è sui social è come se non esistesse. Allora consideratemi morto, ho risposto, da oggi in poi Frank Iodice sarà fatto di carta.

Per invertire questo meccanismo malato bisognerebbe ribellarsi, imporsi e riottenere la dignità che abbiamo perso per colpa del mercato e delle sue logiche illogiche; riconquistare gli spazi abbattuti dai social network. E uscirne. Non è arroganza né presunzione, al contrario, se ti ritiri in una dimensione privata e ti concentri solo sul tuo lavoro, smetterai di prostituirti nell’altra dimensione del mondo, quella pubblica, cui tu non appartieni. Sono le tue opere ad appartenere ai lettori, la loro vita, non la tua.
Non vuol dire neanche rinunciare al dialogo con i lettori, che è il pretesto dal sapore democratico con cui ti convincono a tenere un profilo social. Io per esempio ricevo decine di email in cui lettori e lettrici mi raccontano la loro esperienza e mi chiedono un parere o addirittura un consiglio. Con alcuni, mi scrivo regolarmente e forse è più utile a me che a loro. Parlo con i lettori durante le presentazioni, in libreria (guarda un po!) oppure via email. Il mio indirizzo email è pubblico ed è sempre lo stesso da 20 anni, da molto prima che esistessero i social network. Che bisogno c’è di essere online 24 ore su 24 e sminuire un rapporto così importante tra lettore e autore, che è sopravvissuto per secoli, riducendolo a tre puntini lampeggianti in perenne attesa di una risposta?

Ora mi chiedo: come trasmettere questa visione ai giovani che entrano in questo mondo pieno di insidie e se ne fanno un’idea sbagliata? Non lo so. Ormai tutti credono che gettare qualsiasi cosa alle stampe (talvolta pagando) ed essere popolari sui social network voglia dire essere scrittori e basti per prendersi tutti i meriti, diventare “famosi”, che parola schifosa. Senza contare che proprio in rete ho letto tempo fa che “essere famosi su Facebook è come essere ricchi al Monopoli”.

Insomma: tu perché scrivi? per dare o per prendere? Se la tua risposta è “dare”, allora ti renderai conto ben presto che questi anni in rete hanno solo tolto tempo prezioso alla lettura e al tuo lavoro. Se sei un vero scrittore hai bisogno di lettori veri, non di follower. Cristo santo! Ma lo sapevi che i follower si possono addirittura comprare? 5 dollari per ogni pacchetto da 100! Sarà la bellezza dei tuoi libri la migliore forma di pubblicità, non avrai bisogno di taggare giornalisti e critici, cercarli per notti intere e aspettare risposte per anni, risposte che nel nostro paese, un paese di scrittori, sono sempre più rare. Basterà un editore appassionato e un ufficio stampa serio e competente, e saranno i giornalisti a cercare te. I tuoi lettori, infine, ti restituiranno la dignità che hai perso mentre postavi le foto del tuo gatto o del tuo culo per ottenere più like. E condividerete i tuoi libri, e basta, come è sempre stato, come sempre sarà”.

* Frank Iodice è uno scrittore e traduttore. Dopo aver vissuto negli Stati Uniti e in altri paesi, ora vive in Francia. Non ha uno smartphone, né un account social. Non ha neanche il televisore. I suoi romanzi e molti racconti sono ambientati a Parigi, Nizza e Marsiglia. Ha tradotto diversi romanzi di autori e autrici sudamericani. frankiodice.it