Tra Emergency e Street Art, il volto nascosto della periferia napoletana.

Le antiche palazzine scorrono come in un fiume carsico, una accanto all’altra. Alcune hanno accenni di decorazioni di inizio secolo, cenni di ricchezza di un tempo che fu. Nel corso principale di quello che un tempo era un paese, si susseguono gelaterie, pizzerie, bar e negozi. Tutt’attorno vi è un reticolato, labirintico e a tratti ipnotico, di vicoli e antiche corti piene di rughe lasciate dallo scorrere degli anni. Quest’isola proveniente dal passato si interrompe di colpo. L’orizzonte si apre, il Vesuvio incombe con prepotenza. Tutt’attorno vi sono foreste di cemento armato, un cemento brutale, che sembra aver seppellito in una colata piroclastica un’antica foresta. Ma così non è, non è stata la natura a creare questa devastazione, ma la rapace mano dell’uomo del Novecento.

Il secolo delle democrazie, dello stato sociale e della scienza, che tanto ha migliorato le vite della maggioranza della gente, ha anche creato foreste di lugubre cemento, parchi rifiniti con tutte le attrezzature e mai inaugurati per mancanza di risorse per la manutenzione. Veri e propri non luoghi urbani. Eppure Ponticelli, come molto spesso tante periferie napoletane, cela un volto nascosto.

Quando la si percorre ascoltando musica elettronica, ammirando le tante opere di street art presenti nel quartiere, si scopre che anche il cemento più brutto può nascondere perle di bellezza. Quando verso le sette di serra, i vialoni isolati accanto al parco, mai aperto al pubblico dei Fratelli De Filippo si riempiono di centinaia di persone che vanno a fare jogging o trasformano l’area in una palestra all’aperto, tutto assume un’altra veste.

La musica elettronica di colpo sembra sprigionare mille note diverse, infinite sfumature che sembrano trasformarsi in tantissimi tasselli di un mosaico. Un mosaico geometrico e ipnotico che decostruisce l’immagine che uno ha di Ponticelli, per creare infinite nuove possibilità.

Qualcuno che ha saputo immaginare una Ponticelli diversa, è stata Emergency, che qui, con l’aiuto del Comune di Napoli, ha aperto un ambulatorio medico che offre svariati servizi gratuiti, per italiani e stranieri. Gli operatori si occupano di medicina generale, infermieristica, orientamento socio-sanitario, pediatria, sostegno psicologico e educazione sanitaria.

L’intervista | Andrea Belfiore – Emergency

Andrea Belfiore, responsabile dell’Ambulatorio, normalmente si pensa di trovare Emergency a Kabul o a Gaza, com’è nata l’idea di aprire a Ponticelli?
Da dodici anni Emergency ha iniziato un programma in Italia. Tutto incominciò con l’ambulatorio di Palermo. L’idea era di intervenire nel nostro paese nei luoghi in cui vi erano molti migranti che erano fuori dal sistema sanitario. Il progetto è nato durante la prima crisi migratoria dal Nord Africa e abbiamo aperto sedi anche nei luoghi del caporalato nel Sud. Anche se tra i primi ambulatori creati vi fu quello, nel profondo Nord, di Marghera che ha un pure l’ambulatorio odontoiatrico. In generale fin da subito siamo rimasti sopresi per l’alta presenza di italiani che hanno incominciato a frequentare gli ambulatori sparsi per l’Italia. Questo perché una fetta di popolazione, italiana e straniera, resta fuori dal sistema sanitario. Infatti, nonostante la Carta Costituzionale e le leggi, non sempre si riescono a offrire servizi adeguati. Per superare queste problematiche Emergency offre gratuitamente servizi di medicina di base, educazione sanitaria e orientamento socio-sanitario per facilitare l’accesso al sistema sanitario a chi ne ha bisogno.

Vi affidate anche a mediatori culturali?
Certamente, i mediatori culturali informano i pazienti sui loro diritti, li aiutano ad accedere al Servizio sanitario nazionale, li accompagnano in caso debbano sottoporsi a visite o esami specialistici presso le strutture pubbliche, si occupano delle pratiche per il rilascio dei codici Stp (Straniero temporaneamente presente) ed Eni (Europeo non iscritto) che garantiscono agli stranieri e ai cittadini neo-comunitari l’accesso al Servizio sanitario pubblico. Presso l’ambulatorio di Napoli sono inoltre disponibili un ambulatorio infermieristico per iniezioni, controllo parametri vitali, monitoraggio della terapia, medicazioni e un servizio di supporto psicologico per le persone più vulnerabili.

Che rapporti avete con le istituzioni?
Abbiamo dei protocolli d’intesa con le Asl locali, anche perché abbiamo il ricettario regionale per prescrivere i farmaci. Inoltre, come nel caso di Napoli, gli spazi sono concessi dai comuni. In città esistono gli ambulatori Stp dell’Asl, noi completiamo l’offerta. Anche grazie al lavoro dei mediatori culturali e un mezzo che trasporta i pazienti all’ambulatorio o negli ospedali.

Quali soni i casi burocraticamente più complessi?
I comunitari (Eni) non hanno esenzioni, se non per patologie conclamate. Ma un rom rumeno o una badante bulgara prima di arrivare all’esenzione per diabete dovrebbe avere i soldi per le visite diagnostiche. Spesso poi i laboratori Stp/Eni, non visitano ma prescrivono solo e questo crea accessi impropri al pronto soccorso o prescrizioni inutili, il tutto per altro comporta uno spreco di fondi. Per non parlare del fatto che nei pronto soccorsi della zona, dove arrivano persone con ferite da proiettili, casi di salute gravissimi, non hanno proprio tempo di fare analisi accurate per casi apparentemente non drammatici. Noi per evitare questo visitiamo i pazienti. Vi sono poi malattie tipiche della povertà, pensiamo per esempio alle malattie odontoiatriche. La mancata prevenzione e lo stile di vita fanno sì che, spesso bambini di otto anni, abbiano già metà dei denti cariati. In generale, la mancata prevenzione comporta conseguenze a lungo termine. Basti pensare che i rom che vivono nei campi hanno un’aspettativa di vita di dieci anni inferiore alla media nazionale.

Che utenza avete?
Abbiamo un’utenza molto variegata, dal sub sahariano, al Rom, alla badante ucraina, a molti italiani. I mediatori servono sia per far superare eventuali paure nei confronti della medicina occidentale, sia per spiegare bene le diagnosi e i passaggi burocratici che spesso sono complicati. Abbiamo anche lavorato molto per creare uno spazio bello e questo è stato apprezzato moltissimo, così come la presenza dei mediatori fa sì che la gente si senta ascoltata. In Campania abbiamo anche un ambulatorio a Castel Volturno che si occupa, tra gli altri delle vittime del caporalato e della tratta della prostituzione. A Napoli si è puntato molto sul laboratorio infermieristico che è frequentatissimo da italiani, perché non ve ne sono di pubblici, se non uno al Vomero. Abbiamo poi creato uno sportello psicologico perché la psicologia è considerata per i ricchi e quella garantita dall’Asl non è poi così accessibile. Dopo aver diagnosticato i problemi e instradato i pazienti verso le varie strutture pubbliche, continuiamo, nel tempo, a garantire comunque assistenza medica e orientamento ai numerosi stranieri comunitari e non, che si sono rivolti a noi per una prima diagnosi. Questo al di là del fatto che siano regolari o irregolari. Un altro progetto che portiamo avanti è quello dell’educazione sanitaria, andiamo nelle scuole, nei centri per anziani, nei campi rom, per fare prevenzione odontoiatrica, sanitaria e sugli incidenti domestici.

L’ambulatorio è vicinissimo al parco di Street Art creato dal Comune di Napoli e da Inward. Avete anche lanciato voi un progetto di street art per abbellire la facciata esterna del palazzo.
Il wall si compone di due opere diverse che si uniscono per creare un unico lavoro. “Beauty is beauty” è il titolo della parte del murales creata dallo street artist iraniano Nafir. L’opera vuole rimarcare che la bellezza, in tutte le sue forme, non ha confini e può essere strumento di riflessione positiva sul senso della vita e sulla liberazione dai pregiudizi reciproci. La parte del wall creata dal secondo street artist, Frz, ha come titolo “Apri il tuo cuore e libera la tua anima” e vuole far riflettere sul fatto che nessuno deve o può davvero toglierci la nostra libertà.

La Street Art iraniana

L’arte geometrica delle moschee e di molti edifici mediorientali è molto interessante perché è ipnotica. In questo caso la calligrafia o le geometrie portano in modo concettuale a Dio. Nell’arte dei tappeti invece è diverso, dietro ogni geometria c’è un animale, una forma vegetale, una leggenda. Gli artisti riprendono questi concetti analizzandoli in modo contemporaneo. È lo stesso concetto che molti portano avanti nella musica. I giovani iraniani spesso mischiano la musica tradizionale con l’elettronica o la trance, entrambe sonorità molto mistiche.
Nei secoli i tappeti sono sempre stati un messaggio, nascondevano una storia e una filosofia. Si può riconoscere da che villaggio viene un tappeto solamente guardando il particolare di un disegno o di un colore. In un tappeto ogni piccolo dettaglio è ripetuto per centinaia di volte. La poetessa iraniana novecentesca, Forough Farrokhzad, cui si ispirano le donne di Nafir, sosteneva che la vita “è un ripetersi del ripetere”. Si può ritrovare questo concetto nei tappeti come nella ceramica. È una questione numerica, dietro questa ripetizione verso l’infinito si cela il circolo della vita. Non è in realtà una ripetizione sempre uguale, come potrebbe sembrare all’inizio, ma semplicemente uno scorrere circolare del tutto simile a quello dell’esistenza.

Nafir

Sfidando le autorità più oscurantiste Farrokhzad, secondo molti studiosi, “espresse con fermezza sensazioni e sentimenti della situazione femminile nella società iraniana degli anni cinquanta-sessanta, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della letteratura persiana del ‘900. Il ruolo della donna nel matrimonio convenzionale, le libertà prevaricanti del ruolo di madre e donna libera, il rapporto conflittuale dell’essere donna e non poter godere del proprio corpo liberamente, le diedero la forza di combattere ma le impedirono di godere di una vita normale”. Il wall quindi ha molteplici livelli di significati e si ispira alla filosofia sufi e al suo concetto di ripetizione circolare.

Un’ispirazione che si ritrova anche nelle opere dei poeti medioevali persiani, Omar Khayyam e Hafez, o in tanti riti sufi, come quelli dei dervishi rotanti. Sembra una ripetizione, ma questo ripresentarsi all’infinito non è mai ripetizione, ma sempre una cosa nuova. Una geometria che permette di immaginare mille futuri possibili anche per Ponticelli.

Jalal ad-Din Rumi, mistico e poeta medioevale iraniano, disse: “Ero neve, tu mi hai fatto sciogliere. Il suolo mi ha assorbito. Nebbia dello spirito, ritorno verso il sole.”


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.