Le Elezioni Europee sono all’orizzonte. Se i nostri mercati sono connessi, perché non lo sono i nostri sistemi fiscali? L’intervento di Francesca Romana D’Antuono, co-presidente di Volt Europa, e Gianluca Guerra.

Di Francesca Romana D’Antruono, Gianluca Guerra

A chi piace parlare di tasse? A nessuno. Il dibattito politico è fermo su patrimoniale si / patrimoniale no. Un falso binario se il sistema fiscale è rotto alla base.
Il principio dietro la tassazione dovrebbe essere semplice: chi ha di più paga di più in maniera progressiva. Eppure, se guardiamo ai dati, le disuguaglianze economiche sono aumentate negli ultimi decenni. In Italia, il rapporto tra il reddito del 10% più ricco della popolazione, e il 50% più povero è di 1 a 8. Cioè se prendiamo l’esempio della proverbiale torta tagliata in dieci fette da distribuire a dieci persone, una di queste (il 10% più ricco della popolazione) ne mangerà tre da sola, mentre gli altri nove ne dovranno dividere sette. Se guardiamo alla ricchezza (patrimonio immobiliare, azioni, assicurazioni etc) lo stesso rapporto diventa 1 a 5.

Questo divario non riguarda solo il nostro Paese ma è un fenomeno che investe tutto il mondo. L’Europa è l’area geografica dove le disuguaglianze sono meno acute, ma anche una di quelle con la responsabilità maggiore per questo fenomeno per via del suo peso politico mondiale. I sistemi fiscali, inoltre, sono spesso regressivi e favoriscono l’elusione delle tasse per le grandi corporazioni e i grandi patrimoni. 

La regressività riguarda soprattutto le grandi aziende ma tocca anche la vita delle persone comuni con tasse come quelle sui prodotti per le mestruazioni, o l’IVA in generale. L’elusione, pure, è perfettamente legale – al contrario dell’evasione – e si riferisce alla pratica di sfruttare vuoti legislativi per minimizzare i debiti fiscali. Questo è possibile per via di una serie di fattori, tra cui il fatto che ogni Paese, inclusi quelli in Unione Europea, ha un proprio sistema fiscale che non comunica con gli altri. Alcuni Paesi europei, inoltre, sono veri e propri paradisi fiscali per via delle loro basse aliquote e delle leggi finanziarie favorevoli alla delocalizzazione dei servizi di grosse multinazionali. Considerando il volume d’affari che gestiscono, tali Paesi alimentano cortocircuiti fiscali che provocano danni maggiori all’economia mondiale di posti come le isole Cayman o le Seychelles che più spesso piace raccontare ai media.

Naturalmente, sono le grandi corporazioni o gli individui facoltosi che possono meglio sfruttare queste falle, utilizzando strutture intricate, trust o altre entità legali per spostare denaro all’estero – non certo chi guadagna 1.200 euro e deve pagare ogni mese.

La situazione è diventata talmente paradossale che un gruppo di miliardari ha lanciato la campagna proud to pay more in vista del World Economic Forum, l’incontro annuale dei leader mondiali che si tiene a Davos in Svizzera e che si è appena concluso. Il messaggio di questo sparuto gruppo è semplice: le diseguaglianze hanno raggiunto un punto di svolta e il loro impatto economico, sociale ed ecologico è gravissimo. Dopotutto, i buchi che creano i sistemi fiscali non solo ricadono sulle spalle delle persone comuni – che in proporzione si ritrovano a pagare più tasse di una multinazionale – ma privano i governi degli strumenti per affrontare le sfide dei nostri tempi, dalla lotta al cambiamento climatico allo sviluppo di nuove tecnologie.

In questo scenario, la grigia finanziaria italiana è da un lato perfettamente in linea con l’andamento dell’economia mondiale, favorendo un modello di capitalismo sregolato – e dall’altro perfettamente irrilevante, visto che affronta a livello nazionale un tema che, nel nostro mondo interconnesso, ha misura internazionale. 

Quindi che cosa rimane da fare? In realtà moltissimo. Il 2024 sarà un anno cruciale: da una parte un gruppo di paesi del sud globale, stufo dei ritardi ripetuto dell’Ocse (organizzazione di paesi prevalentemente industrializzati) di trovare una soluzione globale, ha portato una mozione all’Onu perché le discussioni su questo tema vengano spostate in capo a quest’organo. La mozione è passata con 125 voti a 48. I paesi europei resistono a tale mossa e potrebbe essere un’occasione d’oro per l’Italia per dimostrare che ha ancora un respiro globale e supportare tale iniziativa. 

Non solo, a livello europeo, ci si aspetta una netta vittoria della destra alle elezioni europee di giugno, che rischia di rallentare ulteriormente i processi di riforma delle istituzioni comunitarie, e con essi una reale possibilità di incidere anche sullo sviluppo di un’unione fiscale. Ma quello che servirebbe e proprio il contrario: accelerare l’unità Europea per interrompere la concorrenza tra gli Stati Membri che favorisce una “corsa al ribasso” a favore delle grandi multinazionali; armonizzare la tassazione e imporre un’aliquota minima effettiva; creare un Ministero delle Finanze dell’UE in grado di facilitare lo scambio automatico e obbligatorio di informazioni tra tutti gli Stati membri; implementare un registro centrale della ricchezza fondendo i dati provenienti dalle varie fonti nazionali.

La mappa da seguire è tracciata, ora dobbiamo trovare leader che hanno la volontà politica di seguirla.

Foto copertina: Jorgen Hendriksen – Unsplash