Ho parlato della guerra con qualcuno che l’ha vista con i suoi occhi, fuggito dal Sudan e arrivato in Italia dopo giorni e settimane di viaggio estenuante attraverso una nazione sempre più xenofoba. Joussef ha un libro in mano, e sorride anche se non vuole mostrarlo, si vede che gli fa piacere parlare con me. All’inizio non si lascia andare, è diffidente, i pochi che si sono avvicinati a lui finora sono volontari che portano da mangiare o poliziotti che lo richiamano all’ordine appena urina fuori dai bagni. La toilette della stazione è da condividere con altri settanta migranti come lui e con i passeggeri in transito. Ormai è più di un anno che va avanti questa situazione. L’ho incontrato davanti alla stazione di Ventimiglia. Quello che segue è il resoconto della nostra chiacchierata.

F: Vorrei parlare con qualcuno di voi e raccontare la sua storia. Grazie alla lettura, i bambini e i ragazzi possono comprendere ciò che sta realmente accadendo nel mondo.
J
: In che modo un articolo su una rivista può aiutarci a raggiungere la Francia e trovare lavoro?

F: In maniera indiretta. Spiegando che chi, come te, fugge dal proprio paese e arriva qui, per noi rappresenta un valore e non un flagello, come invece vogliono far credere alcuni esponenti dell’attuale panorama politico.
J: Allora c’entra anche la politica.

F: Solo un po’. Che noi lo vogliamo o no.

Ridiamo. Nel nostro sorriso si cela la voglia reciproca di raccontarci e di ascoltarci. Ci stringiamo la mano e si convince a venire con me al bar dell’americano (il proprietario del bar di fronte alla stazione di Ventimiglia si chiama, o per meglio dire, lo chiamiamo l’americano) per sederci davanti a un bel cappuccino e continuare la nostra chiacchierata. Joussef parla un perfetto inglese, ha frequentato il liceo prima di fare mille lavori e affrontare, infine, l’incubo della guerra civile.

F: Da quanto tempo sei arrivato in Italia?
J: Meno di un mese.

F: Hai viaggiato in treno, sui camion?
J: Sì, insieme a loro, eravamo un gruppo di dieci, in qualche paesino ci hanno accolto, dato vestiti, da mangiare.

F: E negli altri?
Non risponde.
J: Comunque è meglio che parli con qualcun altro che è qui da più tempo. Vieni, ti faccio vedere, qui fuori ce ne sono a decine nella mia situazione. Sono tutti qui, vieni.

refugees 720Foto: UNHCR/S. Baltagiannis

Andiamo in una zona defilata rispetto all’ingresso della stazione. Un intero marciapiede ricoperto dagli scatoloni smembrati e trasformati in letti; veli colorati fissati al muro e ai piedi dei giacigli creano una fila di più di cinquanta tende, dove si sono accampati i rifugiati di vari paesi scambiandosi stracci e consigli. Joussef va a parlare con uno di questi, me lo presenta, si chiama Abdullah, è senegalese. Parlo un po’ anche con Abdullah, che mi spiega che nessuno di loro avrebbe voluto finire così, a elemosinare lavoro e documenti. Senza documenti niente lavoro e senza lavoro niente documenti, tutti in attesa di passare la frontiera, sospesi in questo limbo che si chiama Ventimiglia. Un paese con un passato mafioso, oggi diventato una specie di Stige. La mamma di Abdullah è stata uccisa il mese scorso, glielo hanno detto per telefono, ha uno smartphone, ma non ci sono foto della sua famiglia, ovviamente, perché quello glielo hanno regalato qui, dopo essere arrivato. Con molta umiltà mi spiega che tutto quello che desiderano è lavorare, in Francia o in Italia.

F: Sapete cosa sta succedendo in Siria? Ci sono ancora rifugiati siriani qui, come quelli arrivati qualche mese fa? Ricordate?
Abdullah: Li hanno rimandati indietro. C’è gente da ogni parte del mondo. Ci riuniamo e aspettiamo. Ma non chiedere a noi cosa sta succedendo in Siria, non sappiamo niente di quello che accade negli altri paesi.

F: Perché non credete a quello che dicono in televisione?
A: Esatto; noi possiamo raccontarti solo quello che abbiamo visto nel nostro.

F: E cosa succede nel vostro paese?
A: Uccidono, violentano e distruggono.

F: Per il petrolio.
A: Per il petrolio.

Abdullah parla un francese mescolato al suo dialetto africano, faccio fatica a capire tutto; non ha lo stesso livello di istruzione di Joussef, forse anche per questo si agita e grida, non riesce a esprimere con calma i suoi pensieri, ad organizzarli in modo che, mettendoli insieme ai miei, possiamo ricostruire la sua storia. Per cui mi concentro su quella di Joussef, con il quale parlo tranquillamente in inglese.

F: Se i giovani leggono storie di gente vera, come la vostra, forse non ci salveremo noi, adesso, ma si salveranno le future generazioni. Non credete?
J: Sì, è così, tutto inizia dai banchi di scuola. La cultura è la sola libertà…

Siamo affacciati alla balaustra della rampa per gli handicappati. Davanti a noi c’è una piazza sporca e desolata, eppure nei suoi occhi sembra esserci un vasto orizzonte che lo attende sereno.

F: Sarebbe bello se i bambini iniziassero a studiare la storia delle culture e delle religioni, anziché le religioni di stato. Cosa ne pensi delle religioni e del fatto che la gente nel tuo paese si ammazzi in nome del proprio credo?
J: Le religioni dovrebbero unirci, Dio non ci ha insegnato a uccidere per imporre le nostre idee. La parola di Dio, in effetti, è interpretata da ognuno in maniera diversa; dove lo avranno mai letto, per esempio, che bisogna uccidere i gay e violentare le donne perché “così voleva Dio”! Quello che è successo nel mio paese, comunque, è un’appropriazione di ciò che non ti appartiene. Se questa bicicletta non è tua, per esempio, tu non puoi prenderla e portartela via. Tu non la tocchi. Funziona così con le biciclette, no?

F: Come con le ragazze. Se ti piace una ragazza, prima devi chiederlo a lei, non puoi prenderla e portartela via. E potrebbe succedere che una ventimigliese si innamori di te.
J: Certo. Ma nel mio paese non funziona così. Bisogna chiedere ai genitori, che devono essere d’accordo con i tuoi genitori.

Torniamo seri.

F: E la tua famiglia è rimasta nel Sud Sudan?
J: Sì, sono tutti lì. Alcuni sono stati uccisi tempo fa. Mia moglie e due delle mie sorelle… A me dispiace essere partito e aver lasciato gli altri lì, ma non avevo scelta.

F: Hai fatto qualcosa che gli italiani-figli-di-mammà non immaginano neanche: hai avuto coraggio, e secondo me il coraggio è sempre premiato. In quale città vivevi?
J: Yambio.

F: Che facevi lì? Lavoravi? Studiavi?
J: Sono andato al liceo francese, poi ho fatto mille lavoretti. Nei campi, nelle costruzioni, c’è da costruire tutti i giorni, loro distruggono, noi ricostruiamo.

F: Hai figli?
J: Sì, tre.

F: E cosa pensi di fare adesso? Cosa speri che accada nella tua vita?
J: Cercheremo di andare in Francia e di avere i documenti per lavorare.

F: Sarò idealista, caro Joussef, ma io continuo a sognare un mondo senza armi e senza guerre. Come diceva Bob Dylan, ci sono penne stilografiche che uccidono meglio delle pistole. E se proprio vogliono sparare, che lo facciano loro.
J: Giusto! Che si sparino tra di loro!

F: Qui c’è qualcuno che vi aiuta, dei volontari, delle associazioni, o qualche organizzazione internazionale? Non so, per esempio, c’è un posto in cui potete continuare a studiare?
J: Ci sono delle signore che ci portano da mangiare ogni sera. C’è una saletta per fare lezioni di italiano, ma siamo in cinquanta, settanta, e non c’è posto per tutti.

F: E le signore, cucinano bene almeno?
J: Sì, certo!

1Foto: Unhcr – The UN Refugee Agency – Tom Stoddart

Ridiamo. Ridiamo, incuranti delle vecchiette che stringono a sé le borsette e si aggiustano le catenelle degli occhiali mentre ci scansano come si fa coi ragazzacci sporchi che non vanno a scuola. La mia ultima domanda, a Joussef, a me stesso, a chi leggerà questo articolo, è: siamo disposti a essere controllati in nome della sicurezza, della protezione da un nemico che non abbiamo creato noi? E a quale prezzo? Continueremo a credere che la guerra contro l’Is sia necessaria o ci chiederemo una volta per tutte da dove è partita la prima bomba? Mentre Joussef ed io beviamo il nostro cappuccino, passa più volte un gruppo di poliziotti, sembra che facciano finta di perlustrare il parcheggio antistante la stazione, ma non c’è molto da perlustrare: le auto sono le stesse da quando sono arrivato. In realtà controllano i migranti, come se facessero la conta ogni mezz’ora.

F: La gente qui com’è? Come si comporta con voi? Si ferma a chiacchierare come ho fatto io, o pensi che siano un po’ razzisti con voialtri?
J: Non so, non capita spesso di parlare con qualcuno di qui, ci passano davanti come se fossimo invisibili.

F: E la polizia, è tranquilla? Vi lascia in pace?
J: Più o meno. Il problema sono sempre i documenti. Alcuni di noi, li hanno già rispediti a casa.

F: Ma perché, secondo te, tanta gente è razzista? Credi che abbia paura?
J: Dappertutto si sa che noi non siamo qui per uccidere, rubare, violentare, ma siamo brave persone, alla ricerca di un posto dove vivere. Eppure la gente ha paura perché non sa. Ecco perché ha paura della guerra.

F: Cioè?
J: La gente ha paura della guerra perché non sa neanche per cosa si combatte.

F: Abbiamo paura anche perché non vogliamo morire ammazzati.
J: Noi sappiamo un sacco di cose, perché abbiamo sentito i nostri politici. Se parlassimo adesso, non avreste più paura, perché sapreste chi sono i responsabili. Con chi prendervela, insomma. Ma è meglio che stiamo zitti.

F: Ora stai parlando anche tu di politica.
J: È vero!

F: È per questo che molti qui sono xenofobi, ovvero, odiano chi arriva da fuori.
J: Finché tra di noi non si chiacchiererà a carte scoperte, come stamattina, i nostri paesi saranno sempre divisi e la nostra paura di morire, che è una paura insita nella vita, sarà sempre sfruttata da chi è più furbo di noi.

F: Ti esprimi come il più eccelso dei nostri parlamentari. Dovrebbero prendere lezioni da te. Dovevo aspettarmelo da uno che va in giro con un libro di Aristotele sotto il braccio!
J: Me lo ha dato l’americano, per imparare l’italiano.

F: Non preoccuparti, l’italiano non ti servirà a molto, già parli inglese meglio di molti italiani. È solo questione di tempo, vedrai, e troverete tutti un posto civile dove lavorare e guadagnarvi da vivere.
J: Lo spero davvero.

Da gennaio 2016 ad oggi, sono 18.234 gli esiliati arrivati in Italia clandestinamente per sfuggire alle guerre. Nei prossimi mesi si prevede una massa migratoria di più di 300.000 persone.
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Frank Iodice è uno scrittore e giornalista freelance. Teaching assistant presso il Dipartimento di Modern Languages and Linguistics della Florida State University. 10.000 copie del suo ‘Breve dialogo sulla felicità con Pepe Mujica’ sono state distribuite gratuitamente nelle scuole.
Il suo blog è frankiodice.it.