La prima pagina di Libération, uscita in edicola il lunedì successivo agli attacchi terroristici di Parigi, titolava: “Genération Bataclan. Giovani, in festa, aperti, cosmopoliti. Ritratto delle vittime degli attacchi terroristici del 13 novembre”. È stato questo il racconto più forte e dirompente che abbiamo letto in quei giorni. A poco più di un anno dall’orrore di Parigi, è un’altra tragedia a riportare sotto i riflettori di media e sociologi quella generazione che non si arrende alla paura e continua a vivere, come sempre, nonostante tutto. Il Capodanno 2017 sarà ricordato per il nuovo, ennesimo attacco terroristico che ha insanguinato il club Reina di Istanbul, causando 39 morti e oltre 70 feriti. E così, dalla Francia alla Turchia, dall’Europa al Medio Oriente, la  Genération Bataclan si scopre, di colpo, più vicina che mai, nel dolore come nei costumi e in quella voglia di stare insieme, ballare, cantare, oltre la paura.

Quella prima pagina di Libération resta forse, dopo 14 mesi, la migliore risposta contro il terrore in cui è piombata, ormai da anni, l’Europa come il mondo intero. liberation 400La foto ritraeva proprio quei ragazzi. E quei ragazzi siamo tutti noi. Siamo noi il bersaglio che volevano abbattere. I ragazzi del Bataclan, del bar Le Carillon, del ristorante P’tit Cambodge, del Pulse di Orlando o del Reina di Istanbul sono stati colpiti perché liberi, nella loro voglia di musica, di svago, di stare tra amici. In tanti ripetono – oggi come ieri – “non cambieremo il nostro stile di vita perché significherebbe darla vinta ai terroristi e al loro odio”. E anche ad Istanbul, c’è chi scrive: “torneremo nei nostri bar, alzando il volume, bevendo e tornando a fare chiasso nelle strade”come si legge tra i tanti commenti in rete.

A fornire un’analisi di quella che è stata definita la Generazione Bataclan ci ha pensato il filosofo Frédéric Worms su Libération che in quei giorni ha scritto: “Ci sono generazioni che creano gli eventi, come quella del maggio del 68. Altre, come la nostra, che dagli eventi sono raggiunte e colpite. La posta in gioco per questa generazione sarà di resistere a chi l’ha risvegliata e le ha dato un nome. A chi pretende di definirla come se non avesse coscienza di sé, come se non esistesse”. E quella generazione è una classe di giovani “creativa, poliglotta, amante del viaggio, interdisciplinare”. “Non era una generazione spensierata, senza preoccupazioni, leggera. Seduti a un tavolo a sorseggiare vino si parla di tutto e di niente. Ma dietro quel niente c’è anche uno sfondo: le immagini dei rifugiati, la guerra che non è solo lontana ma anche qui, la crisi che non è vero che è finita. Come poteva essere spensierata una generazione simile? E allora, ecco il punto, ecco la ferita, la contraddizione che è una caratteristica del nostro presente. Da un lato la guerra, i cambiamenti climatici, le migrazioni umane, la trasformazione del mondo che scivola sullo schermo di un telefono. Dall’altro la vita che apparentemente continua. I bar e le terrazze. (…) Tutti saranno legati alle vittime per sempre, bisogna essere consapevoli della propria frattura e continuare a frequentare i café, consci che al mondo esistono sia le paure sia il divertimento. Chi è stato colpito? Cosa? Non permettiamo a nessuno di toglierci la facoltà di rispondere. Si tratta di una generazione, non rubiamogli il diritto e la forza di dire quale è”.