Gli incontri con artisti e intellettuali, gli anni dell’infanzia e della formazione. La nostra intervista all’antiquaria milanese Elvira Cattaneo, figlia dello storico collezionista Ernesto.

Di Luca Fortis

I mondi dell’antiquariato, dell’arte contemporanea e quello intellettuale, nella Milano del secolo scorso, erano sfere che si intrecciavano, creando atmosfere di grande fascino. Ne parliamo con l’antiquaria milanese, Elvira Cattaneo.

Hai cominciato a frequentare il mondo degli artisti grazie a tuo padre, Ernesto Cattaneo, storico collezionista e antiquario milanese. Mi parli un po’ di lui e della tua infanzia?
Mio padre ebbe una prima moglie morta ad Auschwitz, abbiamo sempre continuato a frequentare la sua famiglia. Per tanto tempo, non essendo stata per anni accertata la sua morte, mio padre non poté sposare mia madre. Dovette rintracciare dei sopravvissuti ad Auschwitz, che testimoniarono che era morta, per potersi sposare. Questo avvenne quando io e mio fratello eravamo bambini.
Abbiamo sempre frequentato il fratello della prima moglie di mio padre, un ingegnere molto interessante che collezionava treni in giardino. Lei era un’ebrea austriaca, inizialmente i nazisti la misero a fare la traduttrice in un loro ufficio e poi la deportarono, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz.
Mio padre si era sposato giovanissimo, a vent’anni. Era benestante di famiglia e poteva vivere coltivando i suoi interessi. Amava il mondo dell’arte e aveva iniziato a collezionare quadri dell’Ottocento. L’arte contemporanea non era ancora uno dei suoi focus. Fu negli Anni Cinquanta che iniziò a frequentare a Brera gli artisti contemporanei ed ebbe modo di conoscere Lucio Fontana, Piero Manzoni, Gianni Dova, Crippa, Scanavino e tanti altri.

In foto: Elvira Cattaneo

Mi parli di alcuni degli artisti che frequentava?
Il pittore Guy Harloff era molto affezionato a mio padre e, quando rimaneva senza soldi, ogni tanto mio padre lo aiutava, comprando i suoi quadri così particolari. Era un artista stravagante. A Milano riscosse molto successo, quando veniva alloggiava all’hotel Et de Milan in via Manzoni.
Viaggiava per il mondo portando sempre con sé a mo’ di talismani un tappeto e un uovo di struzzo. Creava opere ispirandosi ai tappeti orientali e alla scrittura cuneiforme, poi su quei dipinti incollava foto ingrandite dei suoi occhi.
A un certo punto lasciò Milano e mi lasciò da tenere una splendida collezione di dischi di Miles Davis, John Coltrane e tutti i più grandi di quegli anni… Mi lasciò anche la sua gatta, si chiamava Ipanema.
Si trasferì in Marocco portandosi dietro solo l’uovo e il tappeto. Ben presto divenne un frequentatore abituale del Re e della sua corte.
Un giorno, anni dopo, arrivò al negozio di mio padre con una macchina guidata da un autista marocchino. Gli raccontò che era scappato dal Marocco dopo aver avuto dei problemi, se non ricordo male, perché era andato al potere il figlio del re precedente. Era rimasto di nuovo senza soldi e mio padre gli diede una mano. Mi richiese i dischi, che nel frattempo avevo rigato a forza di ascoltarli.
Mio padre per risarcirlo della rottura dei dischi, gli regalò un grosso anello d’oro, davvero enorme, con un bellissimo leone. Solo Harloff, che era un uomo gigantesco, poteva portarlo.
Lui e papà erano molto amici, sono ancora piena delle cartoline che gli mandava da tutto il mondo.
Ogni tanto mi chiamava per restituire i soldi che mio padre gli aveva prestato. Mi dava appuntamento sempre in qualche bar e mentre chiacchieravamo spendeva un capitale in ordinazioni, finendo per rimanere di nuovo senza soldi. A un certo punto prese una casa alle Cinque Terre, sugli scogli, spesso, tornando dall’osteria che c’era in piazza, avendo bevuto troppo, si addormentava sugli scalini. L’ultima volta che lo vidi viveva a Chioggia in una barca.

Opera di Guy Harloff

Tuo padre era amico anche dello scultore americano di origini lettoni Stanley Tomshinsky, me ne parli?
Stanley Tomshinsky era un uomo candido, a tratti ingenuo, con occhi azzurri, molto alto, sposato con una principessa austriaca. Entrambi erano hippies e viaggiavano con un camper e un gatto siamese. Sono venuti diversi volte da noi in campagna in Val Cuvia. Lei era una donna molto intelligente, fu la prima ad aprire un ristorante macrobiotico a Milano, in via Larga. Avevano preso casa dalle mitiche sorelle Pirovini, che sopra la galleria Fumagalli, in via Fiori Chiari, affittavano a pochissimo agli artisti. La moglie di Tomshinsky, nata nobile, aveva lasciato la sua famiglia per scappare con un artista. Era l’anima imprenditrice della coppia, lui invece viveva il suo mondo d’artista. Quando si separarono, lei tornò in Austria, mentre lui un po’ si perse per strada. Soffrì molto per l’abbandono e si lasciò andare.

Chi altro frequentava il negozio di tuo padre?
Mio padre vendeva anche a Zeffirelli. Veniva in negozio negli anni del boom economico, quando in realtà mio padre faceva una vita più da intellettuale, si era allontanato dal negozio perché non amava molto la clientela di quel periodo.
Lui, piuttosto che vendere, amava comprare gli oggetti e le opere, aveva molta confidenza con gli artisti e gli intellettuali in genere, ma non era un gran venditore.
Dagli Anni Sessanta in pratica lasciò il negozio nelle mani di mia madre, che non se ne era mai occupata e che prima aveva sempre fatto solo l’insegnante. Al contrario di papà, era una buona venditrice, tanto che furono gli anni in cui il negozio fu più redditizio.
Zeffirelli era uno molto attento al prezzo e ho ancora una lettera che scrisse a mia madre in cui scriveva che visto i tempi difficili, voleva pagare a rate, un qualcosa che aveva comprato da noi.



Dove aveva il negozio di antiquariato tuo padre?
Mio padre aveva un negozio molto buffo e divertente, in zona corso Vercelli, dove la sua famiglia aveva costruito negli anni Sessanta dei palazzi sui terreni di proprietà. Il negozio era circondato da magazzini che affittavamo ad artigiani di tutti i tipi.
Era l’unico antiquario della zona, frequentato da una vasta clientela di borghesia illuminata e di artisti. Passavano fra gli altri architetti come Zanuso, Cacciadominione, Giò Ponti, tanti uomini di teatro o di spettacolo. Oltre ai suoi amici pittori e scultori. Ricordo che Lucio Fontana un giorno, avevo dieci anni, comprò un mio quadro. Essendo una bambina e chiamandosi lui Fontana, avevo disegnato una fontana con i baffi. Tutto molto colorato. A lui era piaciuto molto e mi disse che lo voleva per metterlo al posto di un Birolli. Mi diede cento lire. È stato il primo e ultimo quadro che ho mai venduto in vita mia, ma almeno l’ho venduto a Fontana.

In foto: Elvira Cattaneo con il marito Gianfranco Teotino

Ti ricordi altri artisti che hanno frequentato tuo padre?
Giandante X, nonostante non abbia avuto il riconoscimento che si meritava come pittore, era un uomo interessantissimo e di grande cultura. Il suo vero nome era Dante Pescò, era pittore, scultore, illustratore. Era un anarchico, antifascista e partigiano italiano, nonché il più giovane insegnante di architettura in Italia.
Figlio di un noto industriale, da giovane rinnegò la famiglia per fare l’artista. Per questo scelse il nome d’arte Giandante X, voleva l’anonimato. Negli anni Venti, ventenne fece progetti di architettura splendidi. Si vestiva sempre di nero con scarponi chiodati, molti pensavano che fosse fin troppo stravagante, ma in realtà era molto lucido. Aveva uno studio in via Senato sconosciuto ai più, perché non faceva mai entrare nessuno. Vi erano libri dovunque, perfino in bagno. Aveva oggetti di ogni tipo e monete. Era misantropo e detestava galleristi e critici d’arte.
Da giovane era partito volontario per partecipare alla guerra civile spagnola contro i franchisti. Erano gli anni in cui aveva cominciato a essere famoso. A un certo punto si diffuse la falsa notizia che fosse morto nel conflitto e tutto il mondo artistico milanese lo pianse. Quando tornò a Milano, quasi non gli perdonarono di essere sopravvissuto. In Spagna era stato anche arrestato e imprigionato dai fascisti locali. Mi raccontava che si era salvato nelle galere spagnole per il suo spirito ascetico. Da appassionato di filosofie orientali, era solito sedersi in terra con le gambe incrociate come un fachiro per poter intercettare l’unico raggio di sole che entrava in cella. Secondo lui era l’unica cosa che lo poteva tenerlo vivo, non mangiando per giorni.
Da bambina, ricordo che danzava nudo in salotto. Per lui non vi era nulla di sessuale nella nudità, danzare nudo davanti agli amici, faceva parte della sua filosofia di danza e di vita.

Era molto amico di tuo padre?
Con mio padre era molto amico, anche se avevano anche grandi scontri, soprattutto politicamente. Negli anni, divenne sempre più musone e chiuso. Era solito venire a casa nostra senza avvertire, la sera suonava il campanello dicendo in dialetto Milanese: “Sono io, ero qua in zona e sono passato”. Voleva dire che veniva a mangiare. In realtà del cibo non gli importava niente, mangiava tre foglie di insalata. Veniva per parlare, per confrontarsi con mio padre e con noi. Spesso discutendo, poi finivano per litigare e per un po’ non si vedevano.
Dopo un ennesimo litigio, fui io che li rimisi intorno a un tavolo.
Andai a trovarlo, a una sua mostra dove lui faceva finta di non essere l’artista. All’inaugurazione c’era molto gente e lui girava tutto arrabbiato, perché in fondo non amava la folla, facendo finta di non sapere nemmeno chi fosse l’artista. In parole povere, negava se stesso.
Era stravagante, ma molto intelligente, mi diceva sempre in milanese che la rivoluzione non si poteva più fare “perch’é gli hanno dato la Lambretta”. Aveva due o tre espressioni con cui riusciva a cogliere molte verità e passaggi storici. In questo caso intendeva dire che la coscienza sociale delle persone era diminuita con il benessere e con lo sviluppo della società dei consumi.
Quando lo riportai a casa di mio padre, parlarono fino a mattina. Si frequentarono per un altro po’, poi litigarono di nuovo. Anche io, a un certo punto, lo persi di vista e non so che fine abbiano fatto tutte le sue opere d’arte. Lo amavo molto e mi ha molto influenzato. È sicuramente un artista da riscoprire.

Tuo padre conosceva anche Roberto Crippa.
Anche Roberto Crippa era amico di famiglia. Mi ricordo una cena a casa sua, aveva un cucciolo di leone che aveva smontato mezza casa. Era buon amico di papà, poi morì giovane in un incidente aereo. Faceva quadri con spirali ed era appassionato di acrobazie con l’aereo. Veniva a casa nostra con Gianni Dova fin da quando avevano 18 anni e facevano ancora l’Accademia di Brera. Mio padre li ha sempre seguiti nel tempo. Da bambina, il fatto che avesse un leone in casa, mi aveva colpito moltissimo.


Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è image.png

Chi altro frequentava casa vostra?
La moglie di un ambasciatore, la signora Gussoni, che mi ha ispirato molto. Per una vita è stata a casa nostra e lavorava con i miei genitori, quasi come fosse una commessa. Lo faceva per passione perché amava incontrare gli artisti che passavano in negozio. Era estremamente elegante ed era sicuramente affascinata da mio padre e dai suoi amici.

Tuo padre affittava i mobili per i film Rai, me ne parli?
Negli Anni Sessanta papà incominciò a noleggiare i mobili per gli sceneggiati e le commedie della Rai. Tutte le settimane arrivavano i camion della Rai per prendere i mobili per gli sceneggiati ambientati nell’Ottocento, come Piccole Donne, Canne al vento, Il mulino del Po.
Avevamo magazzini pieni di mobili d’epoca. Era un periodo in cui frequentavamo scenografi e “cercarobe” che lavoravano per la Rai e per il cinema, fra cui Piero Tosi, che era un uomo eccezionale e mi offrì di fargli da assistente. Io però avevo la politica in testa, frequentavo i movimenti di sinistra e non ne volli sapere di lavorare grazie a una raccomandazione di mio padre. Oggi se penso al lavoro di Tosi, devo dire che un pò me ne sono pentita.

Sei stata amica di Livio Garzanti.
Ho conosciuto Livio Garzanti attraverso la mia amica Louise Michail che divenne sua moglie. Nel 1974 avevo un negozio e Louise, di origini ebraico persiane, ne aveva uno nella stessa via, via Cerva. Louise e Livio non erano ancora sposati, io avevo un negozio con il mio compagno di allora, l’architetto Claudio Ferrari, dello studio Ferrari Ferradini che aveva sede nel Palazzo Durini e aveva una clientela molto importante.
Il negozio di Louise e del suo primo marito, era di tappeti persiani. Io e Claudio avevamo uno dei primi negozi con oggettistica un po’ stravagante, unendo il moderno e l’antico.
Louise fece conoscere alla Milano di allora la ceramica e il vetro persiano. Organizzò una prima mostra sui vetri persiani, nella sala Garzanti a via della Spiga, con uno splendido allestimento tutto blu Persia, opera di un’architetta giapponese. Ne fece poi molte altre. Con Garzanti ebbe una storia molto lunga e complessa. Me lo presentò. Con lui ho sempre parlato molto, perché ero appassionata della letteratura di inizio Novecento che lui amava. Mi piaceva ascoltarlo, perché aveva conosciuto tutti i grandi del Novecento, da Vittorini, a Pasolini, a Gadda, aveva sempre storie meravigliose da raccontare. Louise ha appena curato un bel libro per ricordarlo. Livio aveva il genio di riconoscere il genio altrui. Garzanti era molto legato alla madre, Sofia Ravasi che aveva portato le scuole montessoriane a Milano.

Sei sposata con il giornalista Gianfranco Teotino, che si occupa soprattutto di sport e di calcio.
Sono 45 anni che sto con Gianfranco Teotino e non capisco nulla di calcio. Ci siamo incontrati in una sezione del partito comunista nell’anno in cui morì Moro.
Io facevo l’assessore di zona e lui era il segretario della sezione. Avevo fatto i corsi del partito a Genova ed ero entrata nei probiviri. Avevo scelto la politica e il mondo artistico e quello dell’antiquariato li avevo messi in secondo piano, poi ci ho ripensato.
Gianfranco è cresciuto professionalmente alla Notte, poi è stato dieci anni al Corriere della Sera con incarichi dì responsabilità prima nella redazione sportiva, poi in quella politica. Negli Anni Novanta passò al Mattino di Napoli con l’incarico di vicedirettore. Furono anni bellissimi a Napoli dove ho conosciuto Domenico Bianchi, Gianni Kounellis, Mimmo Paladino, l’ex curatore del Madre Eduardo Cycelin. Poi andò alla vicedirezione dell’Unità a Roma prima di inventarsi un “settimanale di calcio e cultura”, che si chiamava Rigore ed è durato un paio d’anni.
Gianfranco ha poi lavorato per molti altri giornali e televisioni, scritto libri, si è dedicato ai problemi della comunicazione. E in questi anni abbiano girato sempre molto, abbiamo vissuto a Torino nel periodo in cui era vicedirettore di Tuttosport e a Firenze quando è stato responsabile della comunicazione della Fiorentina. Io, più che per lo sport, ho sempre amato girare con lui per conoscere posti nuovi e anche, soprattutto quando ancora c’era il giornalista Gianni Mura, nostro caro amico con sua moglie Paola, per provare ristoranti…