Il nostro viaggio a Beirut, tra le contraddizioni e i conflitti di una capitale tutta da scoprire, oltre i cliché, la fede, le rovine fenicie e romane e quelle più recenti lasciate dalla guerra.

Beirut è un mondo fatto di mille contraddizioni, spesso si fatica a capire come possano stare insieme. Eppure la sua magia è proprio questa. Club gay, donne interamente velate, ragazze dal tacco dodici e minigonne vertiginose, palestrati e intellettuali, architetture avveniristiche e speculazioni edilizie, antiche e splendide case libanesi e case forate da proiettili, club e caffè tradizionali. Chiese, moschee e sinagoghe convivono in pochi metri. Dopo la guerra civile degli anni 1975-1990 il Paese si è ripreso, ma non ha mai goduto di vera stabilità poiché le varie comunità formate da più di 17 fedi religiose, non hanno mai trovato un vero collante politico o istituzionale.

Il tramonto su Beirut (Pixabay)

Quello che tiene davvero insieme il paese è la contrarietà a nuovi conflitti e una nuova classe di giovani borghesi, laica e unita al di là della religione di appartenenza. Oggi i cristiani appartenenti alle varie chiese sono il 30 per cento della popolazione, i sunniti il 25, gli sciiti il 35, gli altri appartengono ad altre minoranze come i Drusi che sono una religione misterica. Nel paese ci sono ancora qualche decina di ebrei, testimonianza della un tempo fiorentissima comunità ebraica locale. La Repubblica dei Cedri è anche la nazione con la più alta percentuale di profughi al mondo. I libanesi sono tre milioni e mezzo – di cui 1.200.000 nella sola Beirut – ed i rifugiati, siriani e palestinesi, sono un milione e mezzo.

Credits foto: Beirut Pride

Parlare del Libano senza cadere in facili cliché non è semplice, questo è forse il primo segreto che si deve capire se si vuole comprendere il paese. Bisogna quindi abbandonare molti dei pregiudizi o luoghi comuni con sui si arriva nel paese e farsi sorprendere. Se il Libano è in realtà fatto da una miriade di comunità religiose che controllano i territori in cui sono la maggioranza, è anche vero che nessuno è maggioritario nella capitale. Questo ha fatto sì che in molti quartieri si creasse una certa anarchia costruttiva. Se nessuna religione ha la maggioranza, oggi è più facile aprire un club gay.

Beirut è piena di locali Lgbti. Uno dei bar più alla moda è il Bardo dove si incontrano molti stilisti, designer, architetti, buyer di moda. La città ha anche una discoteca gay, il Poche. Qui l’ambiente è più popolare, l’alcol è gratis, si ascolta pop arabo e si tengono spettacoli con drag queens. L’unica regola è non baciarsi, perché la legge non vieta i locali gay, ma gli atti impuri in pubblico sì. Per evitare che i ragazzi che ballano si bacino vi sono dei vigilantes con dei laser. Il che a volte è un po’ comico perché la musica araba si balla utilizzando il corpo e si può essere estremamente sensuali senza bisogno di baciarsi. Ma siccome tutto si tiene insieme anche grazie a questi sofismi mediterranei, poco importa. In fondo anche in Italia si dice, fatta la legge, trovato l’inganno.

La band libanese dei Mashrou Leila

Nel 2017 si è tenuto anche il primo Beirut Pride, organizzato dall’attivista libanese Hadi Damien. A parte alcuni hotel che hanno disdetto all’ultimo qualche sala di conferenza sotto la pressione di alcuni islamici conservatori, tutto è filato liscio. Non c’è stato un corteo vero e proprio, ma decine di eventi. Sono stati distribuiti più di 4mila braccialetti con la scritta Beirut Pride. Simbolo dell’animo libertario della città è il gruppo indie rock Mashrou Leila, il primo gruppo musicale arabo ad avere rotto tutti i tabù delle società arabe e ad avere avuto una copertina di Rollingstone.

Un murale di Beirut (Foto: Luca Fortis)

La città vanta tantissimi locali notturni, ristoranti e bar. In pratica non dorme mai. Un pensiero irriverente e che non andrebbe mai confessato, se non ad amici libanesi strettissimi e sotto effetto di alcol, è che Beirut e Tel Aviv, la capitale dell’avversario politico Israele, in fondo sono molto simili. Giocando con i cliché, veri o falsi che siano, entrambe sono famose per le banche, per il commercio, per il fatto di essere ricche pur non avendo materie prime, per la creatività, per essere molto moderne, per essere capitali della club culture.

Beirut (Foto: Luca Fortis)

Beirut e Tel Aviv. Entrambe sono multietniche, multireligiose, laiche, hanno enormi diaspore all’estero con cui mantengono molti contatti. In tutte due le città si bevono ottimi vini locali, si mangia hummus e falafel e si ama la tecnologia e distano poche ore di macchina l’un dall’altra. Peccato che una frontiera invalicabile e guardata da soldati delle Nazioni Unite, tra cui molti italiani, le abbia divise in modo drammatico. La politica e gli esseri umani a volte diventano ciechi. A questo punto se il vostro amico libanese non vi ha rovesciato addosso l’ottimo vino rosé locale che stava bevendo, vuol dire che è un vero amico.  Beirut ha quartieri in cui le edicole votive piene di madonne e santi hanno la stessa creatività che a Napoli, altri in cui le organizzazioni sciite come Hezbollah controllano il territorio in modo più restrittivo che in Iran, altri ancora ricostruiti e restaurati dopo il conflitto, in assenza dello Stato, da Solidere, una cooperativa di immobiliaristi privati, fondata dalla famiglia dell’ex primo ministro, assassinato qualche anno fa, Rafic Hariri. Questa parte della città sembra più Monte Carlo o Parigi, il resto sembra Napoli.

Tramonto su Beirut (Foto: Pixabay)

Beirut è un mix di rovine fenicie e romane, grattacieli, ristoranti dove mangiare una cucina raffinatissima, traffico impazzito e check point vicino alle case dei politici. Per capire la città non serve leggere cento articoli, bisogna respirare la sua aria. La sua complessità farà sì che ognuno ne scoprirà qualche lato che non avrebbe mai sospettato.


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.