In esclusiva per FACE Magazine, pubblichiamo un estratto inedito dal nuovo romanzo dello scrittore Frank Iodice, “La città del cordoglio”, Eretica Edizioni 2021.

“La testa del bastone urtò all’improvviso contro il finestrino. Un richiamo, un invito a smettere di ricordare. Perché ricordare non è fruttuoso. Ninù non sapeva dove portarlo. Per cui seguì l’istinto, l’unico istinto che aveva quando non era in mare, e lo condusse nel posto in cui si sentiva a casa, il palazzo in cui era nato.
Il Bidello lo conosceva. Tutti lo conoscevano, eppure, stranamente, un edificio così grande, teatro nel secolo passato di un’opera di misericordia senza precedenti, passava inosservato. Il Real Albergo dei Poveri era un posto immenso, nato per salvare ingenti masse di mendicanti, amato e odiato dal popolo, e infine abbandonato e ignorato. In quel luogo, Ninù e molti altri avevano trascorso un’infanzia di reclusione, ma in salvo dalla strada, che era il vero pericolo…
La strada si prendeva gioco del Bidello, che non poteva difendersi, era diventata scivolosa perché era sporca di piume, era appena passata una camionetta con le galline e aveva lasciato un manto bianco dappertutto. Sembrava neve. Proseguirono a piedi tra i suoni preistorici della gente, sguaiati e stonati. Lo prese sottobraccio per percorrere Via Foria, chiassosa, l’arteria sprizzante di una metropoli fantastica ritratta da Lena Amodio.
Adesso lo vedi? gli chiese il Bidello. Si voltò dalla sua parte con i grossi occhi morti.
Eccolo qua…

Foto © Bill Perlmutter, Galerie Hilaneh von Kories (Immagine di copertina del libro “La città del cordoglio” di Frank Iodice, Eretica Edizioni 2021)

L’odore di alici fritte e gas di scarico gli era rimasto attaccato addosso, ungeva ogni cosa, rendeva vere le strade e vera anche la gente.
Il Bidello aveva pane e pezzi di mortadella sparsi nelle tasche, raccoglieva entrambe le cose con la mano buona, senza un ordine preciso. Non era chiaro se ricordasse con esattezza cosa c’era in ogni tasca. Mentre parlava, infilava tutto in bocca in piccoli bocconi.
È bello il Serraglio, non è vero?
Sì. Fa paura, ma è bello, rispose Ninù. E ci vive ancora gente qui dentro. Come è possibile? Cade a pezzi.
Non più del resto della città. I pezzi che si staccano sono pezzi di memoria, caro Ninù. La stiamo perdendo un poco per volta.
La storia di Napoli. Una storia eterna, un susseguirsi di dominazioni di ogni sorta, era nelle pietre di quell’edificio che cadevano ad una ad una. Un centinaio di famiglie vivevano ancora nella parte rimasta in piedi, nonostante il degrado, il freddo, le pareti mancanti. Erano gli ultimi rappresentanti di una povertà dignitosa e orgogliosa, si erano fermati un giorno qualunque del secolo, come l’orologio lassù sulla facciata. Gli orologi rotti non interessano a nessuno.
Ninù ripercorse mentalmente la doppia scalinata dell’ingresso sulla quale ora crescevano le erbacce, le navate, le stanze degli impiegati, carcerati anche loro. Correva sui ruderi con i piedi scalzi del bambino nei suoi sogni ricorrenti. Sentì di nuovo in bocca il sapore del brodo, gli schiaffi dei ragazzi incontrollabili e le carezze di quelli disperati, da consolare. Napoli è la metropoli degli incontrollabili e dei disperati, dei ribelli e degli afflitti. È la città dell’orgoglio di chi resta, e della codardia di chi parte. Ma anche chi parte, chi sembra abbandonarla, lo fa perché l’ama troppo. Quell’edificio raccontava un po’ di questa storia, altrove dimenticata…
Dopo il ritorno del padre si erano trasferiti, ma Ninù continuava a scappare nel Serraglio. C’erano bambini che volevano fare il contrario, scappare fuori, mentre lui tornava dentro. Un decennio più tardi, il Real Albergo dei Poveri avrebbe chiuso il suo immenso portale, sarebbe entrato in un lungo e silenzioso degrado, avrebbe subìto la violenza dei terremoti, delle depredazioni, fino ad assumere l’aspetto che aveva adesso: una carcassa vagamente somigliante a ciò che era stato in vita.
Gli rivenne in mente l’infermiere Materazzi. La sua nuca sudata, i capelli rasati sulle tempie quando con la camicia si asciugava il sudore per la fatica di acchiappare i piccioni. Sentì il grosso ago di ferro e le iniezioni di penicillina, dolorosissime. Si rivide giallo in viso, debole, sognò i torroncini che i bambini ricchi ricevevano in dono quando erano malati, i loro bei comodini cesellati, pieni zeppi di dolciumi.
L’uomo sbaglia per essere perdonato, non è vero, Ninù? disse all’improvviso il vecchio Bidello. Tu tieni troppa rabbia in corpo figlio mio. Non ci venire più in questa piazza, è inutile ringhiare perché non sai neanche tu contro chi stai ringhiando. Ma non è colpa tua. Se accarezzi il cane quando morde e lo bastoni quando scodinzola, il cane impazzisce…
Con un fazzoletto di stoffa si asciugò le lacrime che dovevano essere solo nella sua immaginazione e concluse con un piccolo sorriso:
Da tanti anni ho smesso di chiedermi che tipo di uomo sarei stato se avessi avuto un’altra madre, una madre che non mi avesse gettato un liquido infuocato negli occhi. Non serve a niente chiedersi che cosa saresti stato. Avrei voluto raccontare anche questo a mia moglie, ma non l’ho mai fatto perché avevo paura che si sarebbe girata dall’altra parte.
Ridiscesero fino al centro antico, il cuore pulsante e imperscrutabile della città, raccontava il Bidello. Parlarono di tutto ciò che avevano perduto, l’argomento preferito da entrambi. Mangiarono la pizza piegata a portafoglio, si sentiva l’odore del basilico fin dentro lo stomaco prima ancora di morderla. Il cieco versò la mozzarella liquida sul marciapiede. Ninù lo aiutò a pulirsi la barba con i tovagliolini ruvidi del bar. Dalle strade si sentivano urla e risate di gente allegra e triste. I bambini si riunivano negli anfratti nascosti tra le auto per scambiarsi le figurine dei calciatori. Un paio di ragazzini in motorino passando gridarono:
Che, Ninù? ti sei messo a fare la badante?

Napoli. Foto © M.Canciello – Unsplash

Nel pomeriggio lo riaccompagnò nella stanzetta del ragazzo dei videogame. La palazzina gialla era decorata con fregi barocchi e grate fitte che proiettavano ombre maculate sul marciapiede. Lo guardò mentre spariva lungo le scale, nel buio, la dimensione che apparteneva a lui, o a cui lui apparteneva. Appoggiato alla ringhiera, il Bidello cercò gli ultimi resti del suo panino nella tasca dei pantaloni, larghi e morbidi, e ricominciò da dove lo aveva lasciato qualche ora prima. Dalla maniera di tenere giù la testa, sembrava sapere che non si sarebbero più incontrati e non avrebbero più parlato dell’odio di Napoli. Di quella rabbia viscerale, congenita, che i bambini cresciuti nel Serraglio provavano nei confronti di chiunque. Era inutile. Loro non erano in grado di liberare la città da tutto questo.

Napoli. Foto © A.Barbarisi- Unsplash

Soltanto chi odia Napoli, la può liberare, disse infine il vecchio Bidello con le mani appoggiate con leggerezza alla ringhiera del pianerottolo.
E come? chiese Ninù.
Smettendo di odiarla. Perché anche le rondini si convincono di essere zoccole se glielo ripeti in continuazione. E invece di volare sotto i tetti, iniziano a cercare da mangiare nei cassonetti.
Fuori dal finestrone, distrutto, continuavano a penzolare le scarpe da ginnastica dei bambini buoni, annerite, abbandonate lassù al freddo, i lacci attorcigliati, impossibile scioglierli. Dall’interno, si sentiva la sapiente voce di Roberto Murolo che andava a spegnersi in una di quelle traverse portando con sé il perdono e la consapevolezza della musica: È tanto bella Napule ca pure ll’odio te fa scurdà…”

(Brano tratto da “La città del cordoglio”, Eretica Edizioni 2021)

Frank Iodice (Napoli, 8 febbraio 1982) è scrittore e traduttore. A vent’anni è partito per gli Stati Uniti, dove ha svolto i lavori più disparati. Ha pubblicato numerosi romanzi e racconti, tradotti in diverse lingue. Attualmente vive ad Annecy (Francia) con la sua famiglia. frankiodice.it