“Dio creò il primo giardino e Caino la prima città”. Rileggendo questi versi, c’è da chiedersi se il poeta secentesco Abraham Cowley avrebbe considerato l’agricoltura urbana una sorta di eresia. Di certo, dai suoi tempi sono cambiate molte cose. Per la prima volta, nel 2009, i cittadini sono divenuti più numerosi degli abitanti delle campagne, e in questa moltitudine che consuma i frutti della terra senza partecipare ai processi di produzione, è cresciuto il desiderio di sapere cosa si mangia. Secondo un’indagine del 2011 (Ipr Marketing), un italiano su quattro si dedica alla coltivazione di un orto sul terrazzo o il balcone di casa, preferendo piante ornamentali ed erbe aromatiche, ma riservando uno spazio anche a frutta e verdura. Un fenomeno in continua crescita, che vede moltiplicarsi orti in bottiglia, giardini verticali e coltivazioni di quartiere. L’orto, che un tempo era simbolo di povertà, adesso è divenuto il vessillo di una diversa consapevolezza alimentare, e non mancano i VIP che si fanno ritrarre con una zappa in mano. Tuttavia, sarebbe un errore considerare l’agricoltura urbana una moda radical-chic. Ormai in tutto il mondo, questa pratica viene considerata un’attività sempre più seria, e si stanno affermando tecniche di coltivazione ad alto tasso di tecnologia per far fronte all’esigenza di ottimizzare le risorse sempre più carenti del nostro pianeta. In Bangladesh, un progetto universitario offre sistemi acquaponici a basso costo a chi vive in condizioni climatiche avverse; nel deserto si utilizza la tecnica aeroponica, ovvero la coltivazione in aria, già sperimentata dalla NASA. A Gaza ci si dedica alla coltivazione acquaponica sui tetti, per ovviare alla mancanza di terreni coltivabili.

Anche in Italia possiamo vantare alcune eccellenze, come la serra galleggiante Jellyfish Barge, una “medusa” di legno e vetro che ospita un sistema di coltivazione idroponica alimentato a energia solare (in foto, sotto). Con questo progetto pluripremiato, il collettivo Pnat ha proposto un metodo brillante per spostare l’agricoltura sull’acqua, ovvero la superficie più vasta del pianeta.

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Tornando a una scala più ridotta, anche i principianti possono trovare sul mercato dei mini impianti di coltivazione indoor automatizzati. In pratica, una volta attaccata la spina avrete fatto la maggior parte del lavoro.

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C’è, invece, chi preferisce coltivare all’aria aperta, magari riscoprendo la condivisione con la comunità del quartiere. Succede negli orti urbani di Garbatella a Roma, piccoli appezzamenti di terra nella giungla di cemento, a disposizione dei residenti che ne fanno richiesta, e che li hanno curati fino a trasformarli in un rigoglioso giardino segreto.

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Anche in zona Prenestina, all’ex-Snia, c’è un’”ortofficina” nata nel 2011. Un gruppo di lavoro multietnico coltiva in cassetta dentro uno spazio minacciato dall’espansione edilizia, in un vero e proprio “tentativo di resistenza”.

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Secondo Mariella Bussolati, “Tornare alla terra da cittadini […] è inevitabilmente parte di una ribellione: il desiderio di riconoscere la propria parte biologica e culturale, rifiutando il modello del consumatore passivo, che è stato imposto negli ultimi trent’anni” (da L’orto diffuso, Mariella Bussolati, Orme Edizioni, Roma 2012, ndr). Forse c’è davvero qualcosa di eretico nell’incontro tra giardini e città, ma siamo sempre più convinti che darà buoni frutti.

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INTERVISTA | SARAH MAYOL (inGreen studioLab)
Abbiamo rivolto alcune domande alla garden designer Sarah Mayol, co-fondatrice di “inGreen studioLab”, società di progettazione, realizzazione e cura del verde, che – tra gli altri progetti – ha realizzato “L’Acchiappacielo”, per il “Festival del Verde e del Paesaggio” in collaborazione con Riccardo Spinucci e Matteo Schillaci.

Roma è una delle città più verdi d’Europa. Cosa ne pensi del modo in cui vengono gestiti questi spazi?
Roma è una città ricchissima di verde, pubblico e privato, storico e più recente. Un paesaggio di cupole, fiori, tegole e chiome: un potenziale pazzesco. Tuttavia, per lo scarso interesse delle istituzioni e della cittadinanza, questo patrimonio non viene gestito adeguatamente: non esiste un vero e proprio regolamento del verde pubblico – nonostante la legge nazionale lo imponga – motivo per il quale in città ci troviamo circondati da alberi malati, aiuole deserte, poca attenzione alla biodiversità e alle specie autoctone, spazi progettati con poco criterio, panchine assenti o posizionate a distanze inumane l’una dall’altra, percorsi non accessibili a persone con disabilità motorie…

Credi che si potrebbe coinvolgere di più i cittadini, magari con esperimenti come quello realizzato negli Orti di Garbatella?
Sì, sta crescendo l’interesse per la riappropriazione di spazi verdi pubblici – inutilizzati o abbandonati – per realizzarvi orti, sia come luogo aggregativo e di scambio sociale intergenerazionale, sia per una reale necessità di sostentamento alimentare.

Si stima che negli Stati Uniti l’agricoltura urbana costituisca un mercato da 5 miliardi di dollari. È concepibile cha anche in Italia arrivi ad essere una valida alleata delle campagne nella produzione agricola?
Dubito che la commercializzazione di prodotti agricoli degli orti urbani possa avere un impatto di tale importanza, in Italia. Tuttavia, l’interesse e l’attenzione dei giovani, consapevoli di riappropriarsi della capacità di produrre beni alimentari nel rispetto della natura, può dare l’avvio a tentativi di realizzare attività proficue, magari creando in futuro un mercato alternativo.