La mostra Queer to the Bank è fino al 29 gennaio alla Galleria di arte contemporanea Fonti di Napoli. La nostra intervista a Lorenzo Xiques che ha curato la collettiva.

Fino al 29 gennaio si tiene a Napoli presso la Galleria Fonti in via Chiaia 229 a Napoli, la mostra collettiva Queer to the Bank, con lə artistə Dario Biancullo, Will Fredo, Zoë Marden, PRICE, Gavilán Rayna Russom e Pamina Sebastião, curata da Lorenzo Xiques.
Xiques (Caracas 1983) ha studiato architettura a Napoli, dove vive e lavora.
Nel 2010 ha iniziato a lavorare come assistente alla produzione di mostre nazionali e internazionali nell’ambito dell’arte contemporanea, raccogliendo esperienze come addetto alla progettazione, direttore dei lavori e addetto alla gestione della comunicazione sui social media. Dal 2013 al 2017 ha lavorato presso l’associazione Quartiere Intelligente come direttore artistico e organizzatore di eventi musicali e culturali legati alle tematiche e alle pratiche del vivere sostenibile. Nel 2018 ha collaborato con la Fondazione Morra all’apertura di Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, svolgendo varie funzioni, tra cui quelle di archivista e ha collaborato con Fiorucci Art Trust come coordinatore per la produzione di performance sul territorio per diverse edizioni del festival di performance Volcano Extravaganza. Dal 2018 lavora come assistente manager presso la Galleria Fonti e ha iniziato un percorso come curatore indipendente, collaborando con spazi indipendenti non-profit sul territorio napoletano. Nell’ultimo anno ha rivolto il suo interesse come ricercatore e attivista verso i gender-studies, con un approccio multidisciplinare e interdisciplinare che mira a indagare ed esplorare lo studio dei significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere nella società contemporanea che lo circonda.

Dario Biancullo, Analcharakter, 2021. Foto: Amedeo Benestante © Galleria Fonti

Perché nasce la mostra Queer to the Bank?
La mostra nasce dalla necessità di creare un continuum tra la realtà che vivo, in quanto persona queer e attivista, e la mia sfera professionale. Per un decennio intero, da quando ho iniziato a occuparmi di arte contemporanea, ho lavorato a progetti di altre persone e visitato mostre di altrǝ artistǝ, andando di fiore in fiore a cercare il nettare migliore da portare nel mio alveare. Questa è stata un’esperienza estremamente formativa che mi ha permesso di conoscere approfonditamente il contesto nel quale stavo insistendo, senza cadere nella trappola dell’improvvisazione, diventata molto comune, ma allo stesso tempo non mi soddisfaceva pienamente. Quando nel marzo del 2020 sono rimastǝ a casa per tre mesi a causa del lockdown, ho avuto per la prima volta la possibilità di fermarmi e guardarmi intorno, tra i libri di cui mi ero circondato, gli oggetti, gli abiti e tra i contenuti dei contatti che avevo costruito fino a quel momento su Instagram. È stato in quel momento che ho realizzato, come svegliandomi per la prima volta da un lungo sonno, che era proprio nella mia cultura e nella mia comunità, quella queer, che si trovava il nettare che mi serviva per costruire il mio alveare. Ecco, mi piace pensare di far parte di quella woke generation della quale si discute molto oggi, o di essere un “mostrǝ che si risveglia”, come suggerisce Paul B. Preciado.

Queer to the Bank. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Mi parli della tua cultura?
Sono natǝ in Venezuela da madre colombiana e padre cubano, a nove anni mi sono trasferitǝ a Napoli, città nella quale vivo da trenta anni, sono una persona gender queer. Queste condizioni di partenza, ovvero di persona immigrata ed omosessuale, utilizzando un linguaggio che parte da una prospettiva coloniale e cis-etero normata, in contrasto con il contesto fortemente patriarcale nel quale sono cresciutǝ, mi hanno portato a crescere con la sensazione di sentirmi sempre un pesce fuor d’acqua, sensazione che oggi rivendico. La conseguenza di tutto questo è stato il distanziarmi da tutto ciò che veniva dato per assunto dalla maggior parte delle persone. È per questo motivo che ho sempre cercato i miei riferimenti nell’altro, in particolar modo nel margine, ovvero in quello “spazio di apertura radicale, regno della possibilità e della creatività che permette allo sguardo di insinuarsi all’interno del sistema dominante e di corroderlo, cambiarlo. Il luogo in cui oppressorǝ e oppressǝ si incontrano, in quanto spazio inclusivo”, riportando le parole di Bell Hooks. La mia cultura, la cultura queer, rappresenta esattamente questo, un cammino verso la libertà in cui lingua e corpo diventano luoghi di resistenza e rivisitazione delle istanze epistemologiche tradizionali, trasformandosi in lingue e corpi dissidenti. In altre parole, più che una cultura, una controcultura.

Queer to the Bank. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Qual è il significato del titolo Queer to the Bank?
Il titolo nasce da una conversazione con un amicǝ sul rapper Mykki Blanco, correva l’anno 2020 ed era da poco uscito il video di Madonna Dark Ballet che lo ritraeva nei panni di Giovanna D’Arco. Mykki era statǝ sceltǝ da Madonna come la perfetta re-incarnazione della figura del martire del XXI secolo in quanto persona nera, queer e Hiv positiva dichiarata. Io avevo assistito da poco a una sua performance live in cui compariva vestitǝ in total look Gucci, la casa di moda più conosciuta al mondo. Arca aveva appena “partorito” il suo ultimo album con un singolo dal titolo Nonbinary e il filosofo e teorico degli studi di genere Paul B. Preciado compariva nella mini serie del GuggiFest esortando la performer Silvia Calderoni a una “rivoluzione dell’amore” capeggiata dalla comunità queer, dallǝ artistǝ contemporanǝ e dallǝ filosofǝ. Insomma, c’era da parte nostra molto stupore e allo stesso tempo molta diffidenza nel vedere finalmente rappresentata la scena queer sui mass media e di conseguenza nacquero molte conversazioni sulle questioni problematiche che stavano nascendo intorno al fenomeno. La queerness stava diventando un “prodotto” appetibile per le grandi corporations e di conseguenza per le banche, da lì a breve sarebbero esplosi i fenomeni del queerbating, del tokenismo e del già diffuso rainbow washing, e quindi nacque il gioco di parole Queer to the Bank al posto della più corrente forma Straight to the Bank .

Zoë Marden, Mermania, 2021. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Qual era la tua preoccupazione?
Mi piace fare riferimento a episodi di cronaca contemporanea per poter sviluppare riflessioni e costruire dibattiti coerenti capaci di stare al passo con i tempi, se non addirittura anticipandoli. È per questo motivo che se il più importante filosofo della teoria queer, che è una teoria critica e dissidente, presta la sua immagine per una campagna pubblicitaria, mi sto riferendo a Paul B. Preciado per Gucci, nascono delle preoccupazioni riguardo al nesso tra teoria e pratica, interesse e profitto. “Unos minutos de teoria queer en un corto de Gucci solo serviràn para alimentar a la hidra capitalista, facilitando que el dispositivo neoliberal aparezca con un cierto rostro humano” si legge in un articolo di fuoco dal titolo “Paul B. Preciado, Gucci y las miserias del capitalismo”, del professore di filosofia Miquel Martinez. È per questo motivo che ho invitato sei artistǝ queer che affiancano alla loro proposta artistica dei forti statement condivisi dalla comunità a cui facciamo riferimento, e spesso anche una pratica da attivistǝ. Il tentativo è quello di creare una conversazione intorno alla pratica molto diffusa da parte del sistema dell’arte contemporanea di trattare argomenti sociali quali la queerness, l’immigrazione, la crisi ambientale, senza indagare a livello strutturale quali siano le cause che le determinano.

Pamina Sebastião, Death by Registration, 2021. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Secondo te l’arte ha la capacità di individuare queste cause?
Sì, l’arte ha la capacità di raccontare, ma anche di smascherare e per un occhio esercitato ad andare oltre la mera rappresentazione formale ed estetica, mi sto riferendo a una particolare generazione di artiste, di curatrici e critici d’arte, le conversazioni intorno al chi ha proposto una determinata opera d’arte, al come è stata prodotta e al perché sono oggi parte costituente dell’opera stessa. Stiamo assistendo a una lenta ma inesorabile rilettura della storia dell’arte contemporanea stessa, dei suoi autori e dei suoi protagonisti. Basta pensare al movimento Black Lives Matter, che ha portato il sistema dell’arte a ripensare gli spazi della cultura in una ottica de-colonizzata e non più soltanto eurocentrica, al femminismo intersezionale della quarta ondata nata nel 2019 in Cile con il movimento di Non Una di Meno, che ha riportato alla luce il privilegio imperante del sistema patriarcale, non soltanto nella sfera sociale, ma anche in quello della cultura. Essenziale e di particolare importanza la nascita della prima associazione in Italia delle lavoratrici e i lavoratori dell’arte AWI Art Workers Italia. Nonostante questo c’è una grave mancanza di luoghi nei quali poter oggi affrontare questi argomenti. È per questo che non riconosco alcun valore culturale a quelle istituzioni o fondazioni che oggi non trattano queste urgenze, e che cerco, nel mio percorso individuale, di affrontare questi temi, come in questa mostra.

Queer to the Bank. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Ci parli della mostra?
Analcharakter, 2021 è il titolo del costume realizzato dall’artista Dario Biancullo nella sua casa-laboratorio a Forcella. Un “vestito imperfetto” che si pone come metalogo tra i processi di industrializzazione imposti dal fashion system e l’atto primordiale creativo, recuperando indumenti “vissuti e poi scartati” e riassemblando gli stessi con oggetti inorganici recuperati dalla strada, in una estetica punk-glam barocca napoletana, testimone di una resistenza viva, creativa e critica sul territorio. Parlando dell’opera, Biancullo racconta: “Questo metodo mercificatorio credo di averlo incontrato per la prima volta quando da adolescente ho fatto danza sportiva… avrei voluto indossare io quegli abiti bellissimi indossati dalla mia compagna di ballo, invece ero costretto a ballare dentro un frack che aveva un numero dietro le spalle e a dover competere. Dovevo conquistare i giudici e la loro approvazione per poter essere visto, per poter esistere… eravamo io e “lei” contro tutti. L’ingenuo tentativo da parte di una famiglia classica e tradizionale, che pensava di educarmi alla disciplina attraverso la danza, è risultato essere un sistema stretto e soffocante, economico e competitivo. Molti anni dopo mi sono ritrovato in una discoteca gay a Napoli e vedendo per la prima volta ballare due uomini insieme, mi sono sciolto a piangere comm’à nu pazz… Quella esperienza mi ha riportato alla mia realtà, una realtà che non sente il bisogno di essere legittimata attraverso il concetto di successo basato sulle dinamiche di competizione uno contro uno, vincente o perdente, in una metodologia binaria che il sistema della moda avalla proponendo il concetto di abito come unica espressione di genere maschile o femminile o di classe sociale abbiente o meno abbiente, ancora binaria. Una realtà che individuando nella condivisione e “l’interscambio” delle esperienze la sua natura e la sua ricchezza – attraverso una modalità “fluida”- concepisce l’abito come elemento di protezione alla maniera primitiva, il primo safe space da abitare, senza genere, ed individua proprio in esso nuove e alternative narrazioni intese come iperstizioni possibili, e che sublimano il “vestito” lontano dal processo di industrializzazione del fashion system.”

Dario Biancullo, Analcharakter, 2021. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Mi parli di Will Fredo e della sua opera?
Will Fredo è un artistə non-binariə, scrittorə ed editorə che esplora le dinamiche di potere, la dislocazione culturale e l’intersezione tra cultura pop, pensiero decoloniale, kuirness e tecnologia. Natə in Portogallo da origini guatemalteche e capoverdiane, dal 2017 è il vicedirettorə di Contemporary And, una piattaforma d’arte focalizzata sulle prospettive africane ed è fondatorə di Sexual Healers TV, un progetto artistico dedicato alle bio politiche e al sex work.
Centrale in Sexual Healers TV, l’installazione video presentata negli spazi della Galleria Fonti, è il modo in cui l’artistə si cimenta attraverso pratiche artistiche e sociali che prevedono l’alterazione e l’interscambio dei soggetti. Le varie incarnazioni di Will Fredo nel corso degli episodi, da artistə a lavoratorə sessuale e viceversa, mettono in discussione le nozioni istituzionalizzate di rispettabilità, epistemologia e legittimazione, evidenziando il parallelismo esistente tra sesso e profitto e arte e profitto, nella figura del lavoratorə sessuale o dell’artistə quando si affacciano alle dinamiche del mercato.
“Il linguaggio grammaticale è solo l’impalcatura su cui la semantica soffocante della rappresentazione visiva contemporanea (eurocentrica) può affermare un’autorità egemonica. Insieme all’avvento del camming e di OnlyFans e alla proliferazione delle polemiche da parte delle femministe della quarta ondata riguardante la complicata, ma allo stesso tempo promettente, questione intorno all’“impollinazione incrociata” dellǝ corpǝ politicǝ intersezionali, in particolar modo tra il lavoro sessuale e la tecnologia, la video installazione di Will Fredo suggerisce che il discorso e il cambiamento sociale stanno ansimando, cercando di tenere il passo con la furia digitale di cui sono, nel bene e nel male, caduti preda. Combinando ricerca sociologica, finzione, umorismo e un’estetica ambiguamente ciné-vérité, Sexual Healers TV si chiede: che aspetto ha, può e deve avere il lavoro sessuale democratizzato e dignitoso nell’attuale era del “post-woke” del capitalismo digitale?

Will Fredo, Sexual Healers TV, 2021, video installation. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Qual è la storia ed il lavoro di Zoë Marden?
Zoë Marden è un’artista, curatrice e scrittrice nata e cresciuta a Hong Kong che attualmente vive a Londra. Lavora con performance, video, testo, suono, scultura e installazione per creare mondi alternativi e futuri speculativi. Il suo campo di ricerca indaga le modalità attraverso cui il femminismo intersezionale si sovrappone al post-colonialismo. Zoë fa parte del collettivo CAMPerVAN, un progetto che indaga il “queering” degli spazi attraverso la performance. MERMANIA è un’installazione che racchiude una registrazione di una lezione di performance digitale dal vivo dal titolo Mermania: Tales of Tentacularity (The tentacles of COVID Capitalism). Il progetto, che è un work in progress, comprende un’opera video visitabile da questo link, uno striscione di seta stampato in digitale e diverse sculture in argilla.
Le performance intime di Zoë giocano con la voce e attivano paesaggi sonori di desiderio e di vulnerabilità che indagano le mitologie delle streghe e delle sirene e la loro risonanza all’interno della nostra cultura contemporanea.
In MERMANIA, l’artista si sofferma sulla figura della sirena per come è impressa nella nostra memoria visiva attraverso i personaggi del film della Disney La Sirenetta, nel quale Ariel e Ursula incarnano rispettivamente le due estremità che contraddistinguono le identità di genere. Ursula, la strega del mare, è l’incarnazione di Divine, la regina di tutte le drag queen. Icona queer e antieroina femminista in versione animata, i tentacoli di Ursula occupano spazio, spingono ai confini del genere e della sessualità. I suoi tentacoli diventano una metafora della comprensione di Donna Haraway, del pensiero tentacolare e dell’importanza di una prospettiva intersezionale. Nel suo libro Staying with the Trouble (2016), la tentacolarità è un modo per articolare e incoraggiare la simbiosi biologica e politica nell’attuale crisi del COVID-19. I tentacoli di Ursula si espandono e si contraggono invitandoci ad abbracciare altri modi di stare al mondo.
“Per noi esseri umani, il flusso e la fluidità dell’acqua, non solo sostengono i nostri corpi, ma li collegano anche ad altri corpi, ad altri mondi oltre il nostro
io umano. I corpi d’acqua annullano l’idea che i corpi siano necessariamente solo umani. I corpi da cui travasiamo e in cui ci riversiamo, sono certamente altri corpi umani (un amante da baciare, un estraneo trasfuso di sangue, un neonato che allatta), ma sono altrettanto probabilmente un mare, una cisterna, una riserva sottoterra che poi diventa pioggia”. Astrida Neimanis, Corpi d’acqua.

Zoë Marden, Mermania, 2021. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Un altro degli artisti è PRICE, me ne parli?
PRICE è un personaggio immaginario che appare in varie performance. Il suo lavoro è caratterizzato da elaborati paesaggi sonori, costumi e scenografie, spesso sviluppate in costellazioni collaborative. Le sue produzioni giocano con le aspettative del pubblico nei confronti dell’io esposto e apparentemente autentico del performer che si muove davanti ai suoi occhi e sono intervallate da una sequenza di pezzi di cultura pop, da suoni meccanici, ritmi e dalla sua stessa voce. Proprio la sua voce costituisce un elemento centrale nel suo lavoro in quanto, l’artista la concepisce come una “forma acustica di comunicazione emotiva” al di fuori dell’imperativo del linguaggio nel voler creare un significato. Nel lavoro di PRICE, diversi spazi, ognuno con le proprie economie, i propri meccanismi di storicizzazione e di esclusione, di
norme e di potenzialità, si sovrappongono: il palco del teatro e della performance, il club, lo spazio digitale, la passerella della moda, lo spazio espositivo. È in queste sovrapposizioni che il “dramma” noto come PRICE prende forma e performa sullo sfondo di questi spazi divisi tra le sue singole parti costitutive. Le performance si alternano tra l’immersione totale e il brusco smascheramento dei mezzi per la messa in scena teatrale e parte di questo processo comporta un importante lavoro emotivo, che deve essere investito, per mantenere la finzione dell’identità individuale del performer, sforzo genuino e allo stesso tempo, effetto, come il sudore artificialmente scintillante sulla sua fronte. Queste non sono le inconciliabili opposizioni tra artificiale e autentico intorno alle quali si muove, PRICE è interessato anche al rapporto conflittuale tra le categorie socialmente normative, il cui regno sono il sé queer e il corpo queer.

I costumi disadattati fanno riferimento alle varie possibilità di indossare un costume da parte di corpi diversi: gli incidenti, le difficoltà e gli imprevisti sono una costante presente che si insinua nelle sue performance.
Per l’artista, il fallimento è parte della strategia queer: un’indifferenza all’assimilazione, alle identità rigide e alle esigenze del sé nel capitalismo digitale. È un fallimento di secondo grado che fa sempre parte della presentazione.

PRICE, Sequences (Here We Are), 2021, Sonic Installation – Sound production in collaboration with Renato Grieco

E Gavilán Rayna Russom?
Gavilán Rayna Russom è un’artista interdisciplinare che vive a New York. Negli ultimi due decenni ha prodotto un complesso e avvincente corpo di produzione creativa che fonde la teoria con l’espressione, la vita notturna con il mondo accademico e la spiritualità con la vita quotidiana. La rinomata abilità di Rayna con i sintetizzatori analogici e digitali come strumenti di composizione si colloca all’interno della sua più ampia visione della sintesi. Un metodo artistico utilizzato per tessere insieme filamenti altamente differenziati di informazioni e materiali creativi in un insieme espressivo convincente. Il filo conduttore di questa pratica è l’esplorazione della liminalità come agente di guarigione, un fenomeno con cui è stata impegnata fin dall’infanzia e che ha studiato con una profondità sorprendente. Il suo lavoro è cumulativo ed esperienziale, richiede tempo e attenzione per essere assimilato e ricompensa potentemente coloro che vi dedicano il loro tempo e la loro attenzione.
Nel marzo del 2020 Rayna ha fondato Voluminous Arts, una rete creativa per sostenere e diffondere opere di artisti che spingono al limite.
“Quest’opera senza titolo è un frammento di un’installazione chiamata SINless che è stata esposta in occasione di Producing Fututres: An Exhibition on Post-Cyber Feminisms al Migros Museum di Zurigo. L’installazione era composta da materiali di scarto e, ad eccezione di alcuni frammenti come questo, è stata essa stessa scartata. SINless si occupava della persistente presenza dei morti e del fallimento dei media digitali nel trascendere la morte; proponendo invece internet come una seduta spiritica continua. Questo particolare frammento, composto da due supporti per facilitare l’accesso a una toilette e dalle maniche di una felpa con le frange, fa riferimento agli elementi grafici del folklore svizzero-tedesco che rappresentano gli uccelli in coppia per rappresentare il volo spirituale tra il mondo dei vivi e quello dei morti.”

Gavilán Rayna Russom, Untitled, 2019. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

Raccontami anche di Pamina Sebastião.
Pamina Sebastião è un’attivistə e artistə visivə multidisciplinare con sede a Luanda. Il suo lavoro include testo, film, fotografia e collage, spesso centrando il suo corpo come un medium-terreno dal quale partire per interrogare la questione della colonizzazione nel contesto della Luanda. É statə co-fondatorə de L’Arquivo de Identidade Angolano, un archivio di attivistǝ queer creato nel 2017, fa parte del team del progetto LINKAGES Angola che si concentra sullo stigma e la discriminazione nell’ambito della salute sessuale. Sebastião è anche creatorə di Só Belo Mesmo, un progetto multimediale lanciato nel 2020 basato su una riflessione riguardante le nostre esperienze corporee vissute al di fuori delle categorie di esistenza corrente, re-immaginate in un corpo inteso come parte di un processo di decolonizzazione, intersecando le inserzioni di genere, razza e sessualità nella società angolana contemporanea influenzata dal colonialismo e l’esercizio del suo potere.

Pamina Sebastião, Death by Registration, 2021. Foto: A. Benestante © Galleria Fonti

La sua opera si chiama Death by Registration e di essa racconta: “Il mio corpo non esiste ancora.
Questo corpo – che non è il mio – è un prodotto d’invenzione nel quale la nostra esistenza è catturata e genera profitto per una struttura che non ci permette di essere vivi.
Morire non significa dimenticare che il “non esistere” ci fa sanguinare.
Lo riesci a vedere attraverso il colore rosso, vero?
Morire significa trasgredire. Trasmutare”.

I tre collage esposti nella mostra fanno parte di una serie dal titolo Death by Registration, una riflessione critica sul corpo che è stata costruita su di noi dalle strutture coloniali col tentativo di catturarci e trarre profitto da esso.
Non è il nostro corpo ma le inserzioni delle diverse categorie (genere, razza, classe) che sono state create che non ci permettono di esistere, quindi, per arrivare a un luogo di esistenza, dobbiamo immaginare un nuovo corpo e questo significa morire. Morire qui significa trasmutarsi in un’altra forma di esistenza e diventa un passaggio necessario.
È per questo motivo che questa installazione è composta da una seconda parte costituita da una linea immaginaria: è una linea azzurra (composta da elementi in crochet realizzati dall’artigiana Tessa Carina) attraverso la quale possiamo “vedere oltre e muoverci nel tentativo di trovare una via d’uscita per raggiungere un corpo che non è qui ancora”.

 


Di Luca Fortis
Giornalista professionista, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano. Un pizzico di sangue iraniano e una grande passione per l’Africa e il Medioriente. Specializzato in reportage dal Medio Oriente e dal Mediterraneo, dal 2017 vive a Napoli dove si occupa di cultura e quartieri popolari e periferici.